Allo Chateau Marmont, l’hotel storico di Sunset Boulevard che ospitò l’overdose di John Belushi e dove James Dean lesse per la prima volta il copione di “Gioventù bruciata”, si consuma la grigia esistenza della star Johnny Marco che, a differenza dei suoi illustri predecessori, non sa cosa farne della sua fama da attore milionario. Ammazza i suoi giorni su una Ferrari roboante o pescando tra le innumerevoli ragazze che si offrono a lui senza resistenze, sempre che il sonnifero serale non faccia effetto proprio quando è sul letto con la bella di turno.
Sofia Coppola con “Somewhere”, suo quarto lungometraggio, si rende ancora più difficile il compito, più di quanto non avesse già fatto col suo Lost in Translation (premio Oscar per la sceneggiatura). Abbandona i dialoghi, usa con moderazione la colonna sonora, snerva lo spettatore con lunghi piani sequenza e si prefigge il compito di raccontare la solitudine. Dice di essersi ispirata a Toby Dammit di Fellini, ma la macchina del protagonista non arriva a velocità supersoniche a sfidare il fantasma della morte. C’è invece una citazione perfetta dell’ultima scena de La dolce vita in cui si mostra tutta l’incompatibilità tra la vita dissoluta del mondo adulto e la purezza dei pre-adolescenti, con il frastuono di un elicottero a sostituire quello del mare.
La figlia di Francis va laddove ogni sceneggiatore non vorrebbe mai andare: nel chiuso di una stanza a raccontare l’ozio di un depresso. Anche il Philip Marlowe de “Il lungo addio” di Robert Altman, interpretato da Elliott Gould, condivideva la sua vita monotona con un gatto viziato cui andare a comprare i biscotti nel cuore della notte, senza dimenticare il diario del Travis di Taxi Driver che accoglieva tutte le allucinate considerazioni del tassista reduce del Vietnam. La vita di Johnny Marco è straordinaria nella sua nullità assoluta, in quel suo sobbarcarsi di pesi emotivi minimi e per questo immani. Le sue forze vengono assorbite in uno spettacolo di incidenti minori ( guasto alla macchina, frattura di un avambraccio, piccole incomprensioni con l’ex-moglie) che lo rendono incapace di fronteggiare questioni più importanti come quello del rapporto con la figlia. Quando la ragazzina esplode in un pianto inaspettato perché non riesce più a nascondere la tristezza di avere due genitori divorziati e assenti, lui la porta al casinò. Niente dialoghi con aforismi da appuntare o scambi sui massimi sistemi, solo passaggi di informazioni al limite del monosillabo.
È abitudine diffusa parlare del cinema americano per indicare la degenerazione dei film che pensano solo al box office, ma casi come quello di Somewhere non possono che far alleggerire il giudizio di questi detrattori. 98 minuti in cui si sperimenta, dimenticando l’assillo dell’intrattenimento puro.
Autore: Roberto Urbani