Il supergruppo Brotherhood, messo su da Chris Robinson dei Black Crowes come progetto parallelo della famosa rock band californiana, continua a girare dentro confini e attitudini freak folk-rock a dimostrazione che la spinta dei Sessanta psicotropi è ancora viva e vegeta tra noi, e dopo già due dischi usciti sotto questa aura, arriva la terza “puntata”, Phosphorescent Harvest, ma è il disco della stanca, dello sgonfiamento della carica primaria che si adopera di solito per poter attecchire e tirare avanti senza annoiare l’ascolto e tanto meno per non rimanere impantanati in un cliché che ha già dato tanto succo, ma tanto.
Prodotto da quel Thom Monahn dei deliri psichedelici dei Vetiver e Devendra Banhart, il disco contende (come consuetudine di questo genere) lo spazio con ballate folk, e i filamenti della Summer of Love, con l’aria svagata e alcaloide della California Madre di tutto, magari più versato al rock elettrico dei precedenti, ma che satura in pochi minuti ogni ricerca di novità lasciando poco spazio per le interazioni più sfrontate che potrebbero essere significare al meglio come la direttrice cosmique di Clear blue sky & the Good Doctor, l’alito mex Wanderer’s lament o la ballata sul filo logico alla Jerry Garcia Burn slow. E’ una peregrinazione testarda a seguitare a mettere in circolazione i simbolismi di un’era sonora dilapidata, dilaniata e metabolizzata a livello industriale nel tempo, e di conseguenza ogni tentativo di fare sembrare fresco il prodotto è solamente utopia cieca.
Beach Boys, Eagles, Quicksilver e acidi a josa per i sentieri southern passano attraverso le corde di Neal Casal e nella leslie liquida di Adam MacDougall, ma il tutto si dissolve – tra visioni ed astrattismi – in un lavoro tecnicamente perfetto ma che sicuramente svende gli elementi ottimali per diventare un qualcosa di riferimento: il nostro Robinson in questo giro non ce la fa, solo un leggerissimo intrattenimento di “Americana” sui generis per i nostri padiglioni auricolari. Peccato.
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autore: Max Sannella