Non è un film, ma un grosso punto interrogativo che solca perennemente la celluloide per mistificarla con enfasi irriguardosa. Non c’è una trama canonica, ma un insieme stridente di trovate visive e sviluppi inattesi da capogiro che Bellocchio non ha edulcorato (non ci sarebbe stato motivo). La natura conturbante del viaggio di Sergio Castellitto sembra rappresentare una fase di stallo esistenziale prima che artistica, ma alla lunga questa interpretazione perde valore perché sbugiardata dai percorsi dell’opera.
“Il Regista di matrimoni” è nuda attività onirica, contestualizzata con piglio violento, che si fa beffe della razionalità per strizzare l’occhio al non-visto. Intimorisce la proditoria intenzione di lasciare intendere per vie mediate il significato di ogni elemento, anche se in fondo questa prassi racchiude una riflessione pregnante contro il cinema vigente. Se un cineasta arriva, come il personaggio interpretato da Gianni Cavina, a inscenare la sua morte per vincere un David ci suggerisce implicitamente una rifondazione dei meccanismi cinematografici. In questo grottesco episodio, che per altro ingombra impunemente i circuiti narrativi, una frase balugina lapidaria: “In Italia a comandare sono i morti”.
Bellocchio scaglia contro l’ortodossia la sua variante impazzita senza remore, ma non si ferma a questo atto di denuncia. Si diverte, con accenni criptici, a filmare una vicenda che istituisce caterve di superfetazioni autoriali con una disarmante fluidità. I tempi del film, intervallati da allucinati inquadrature in bianco e nero, subiscono irreparabili contraccolpi che scuotono la base su cui si poggia la struttura. Una struttura, mastodontica e inerme al contempo, giace sullo sfondo di un matrimonio che non s’ha da fare. Gli attori sono interpreti, ancor prima del loro personaggio, di un arcano, sotteso, vero protagonista da appuntare tra i componenti del cast. Il principe Gravina, impersonato dal francese Sami Frey, è l’epitome di un mondo oltrepassato dal tempo, pronto ad allestire delle nozze di convenienza a beneficio del proprio casato. Sua figlia, l’enigmatica Donatella Finocchiaro, è troppo autentica per ereditare le inumane abitudini nobiliari del padre, e magari può ancora ribellarsi al matrimonio impostole. Riuscirà Castellitto a scongiurare le ingiuste nozze? Si mette in discussione il ruolo del regista a metà strada tra cineamatore e demiurgo redentore, grazie ad un canovaccio corrosivo che è prima laconico per poi volgere in esiti ipercerebrali. Superando i toni della commedia leggera che riveste la carica di genere principe della nostra penisola, questo sogno sfingeo spicca perché rimescola le carte con talento ispirato.
Certo, Bellocchio con lo scopo di sgangherare radicalmente le leggi non scritte della settima arte si preclude la forza di trasportare genuinamente lo spettatore. Quest’ultimo è un po’ troppo impegnato a barcamenarsi tra riferimenti ingannevoli e significati artati per poter intonare, insieme all’autore, un affascinante inno all’originalità. “Il Regista di Matrimoni” è un film legittimamente pretenzioso che, dopo aver superato l’iniziale perplessità, si inizia a guardare con distacco e finalmente a comprendere nella sua vorticosa bellezza.
>IL TRAILER
Sulle note di “In cerca di te” vengono riprese le scene più ironiche, anche se non si rimanda per niente a elementi della trama : la storia è, per sua stessa essenza, contraria ad ogni semplificazione da sintesi pubblicitaria.
Autore: Roberto Urbani