Come un kolossal in 3d fa presto a regredire a una dimensione. Film piattissimo: fra tre mesi nessuno lo ricorderà più
Avatar va visto per cultura personale. Bene o male resta un evento. È il primo film in 3D a rappresentare non l’eccezione ma la regola. Nel senso che mette tutti gli altri film “ordinari” in fila, laddove fino all’altroieri il 3D restava un filone parallelo, esclusivamente “giovane”. Detto questo, scuotiamo la testa: il magnificato 3d è assolutamente normale, uguale uguale a quelli visti finora. Fatto difficilmente smentibile. E uno. Secondo appunto: la macroscopica scarsità di una storia degna di questo nome. Cioè: un racconto c’è, ma talmente stereotipato da imbarazzare, fa quasi sorridere. Sorridiamo per non piangere. Alieni invasori cattivi da una parte della barricata e selvaggi ossia popolo buono dall’altra; alieni attaccano in massa con astronavi hi-tech e gli indigeni fosforescenti vincono la guerra che manco i vietcong: aiutandosi con frecce avvelenate e un paio di cornacchie alate.
Scontato ed estremamente paternalistico, poi, è l’escamotage narrativo per cui l’umano-alieno sposa, magnanimo, la causa dei “selvaggi” e li salva (perché solo un “civilizzato” può farlo? i “selvaggi” non sanno darsi coraggio da soli?). Un incrocio mal riuscito tra Pocahontas e Un uomo chiamato cavallo. Cameron ha puntato sul sicuro, la realtà tutta bianca o tutta nera – ed ha avuto ragione al box office.
Ma quando non scontenti nessuno qualcosa non va, almeno se hai velleità da empireo cinematografico. Il 3d in Avatar fa presto a regredire a una dimensione. Una sola, proprio come appaiono i personaggi, tutti, davvero tutti piattissimi: nessuno con caratteri particolari. Tra qualche mese non ci verrà più in mente Avatar, a parte, si capisce, qualche festa a tema in un villaggio vacanze. I neji color bluette, il sergente di ferro palestrato che ne ricorda minimo altri duemila: verranno tutti lavati via dalla memoria, scommettiamo? (Tranne forse il pianeta Pandora, di fulminante bellezza, questo sì). Cosa ben diversa da kolossal come Il Signore degli anelli di cui si ha traccia perché Frodo e compagni avevano identità e spessore. Caspita: lì parlavano attraverso Tolkien, mentre qui a scrivere c’è Cameron, non proprio Tolstoj. “Lavoro da dieci anni a questo film, che esce nel 2009 perché allora non c’erano le tecnologie adatte”, ha proclamato a ripetizione il regista pluri-iridato. Ma in proporzione “Tron”, dell’82, è anni luce più avanti per l’epoca. Per non parlare di Star Wars.
Un ritornello, quello della straordinarietà tecnica del film, ripetuto fino alla noia, come un mantra: forse gliel’ha suggerito la casa di produzione per pubblicizzare meglio la sua creatura. Il mantra furbacchione è andato a segno: Avatar è campionissimo d’incassi. Ma questo, vivaddio, non basta per entrare nella storia del cinema. Li ricordate i precedenti campioni del botteghino (e si ragionava con un potere d’acquisto del dollaro ben diverso)? Quelli sì, hanno lasciato un segno. “Titanic”, 1999, tra l’altro dello stesso Cameron, trainato da Celin Dion 29 settimane in classifica: Jack e Rose che prendono il vento a prua a braccia spiegate resistono impressi a fuoco nell’immaginario collettivo. E negli anni ‘80, un certo “ET” fece singhiozzare grandi e bambini. Il buon protagonista di Avatar (come si chiama? boh) invece ce lo troveremo a Meteore, su Italia 1.
Autore: Alessandro Chetta