I Dead Elephant ci travolgono con una enorme ondata di lava incandescente ad oltre mille gradi centigradi. Il trio cuneese, che dopo un ep, ha dato alle stampe questo ottimo disco sulla lunga distanza. Abrasivi come pochi, hanno il piglio blues- core degli Unsane della primissima ora e sono tirati come i più allucinati e psichedelici Neurosis. Questo loro esordio ha un sound favoloso grazie soprattutto al lavoro che è stato fatto tanto in fase di produzione, che di miraggio, dato che è stato registrato da Maurizio Borgna al Garage Ermetico Leumann di Torino e presso il Ruminator Audio di San Francisco, mixato da David Lenci al Red House Recordings di Senigallia e masterizzato da Nick Zampiello (Isis, Converge, Unsane, ecc.), presso il New Alliance East di Cambrige, nel Massachusetts. Penso che come credenziali ci siamo, il risultato, infatti, è tanto coinvolgente quanto strepitoso. Il trio riesce a dipanarsi tra i vari generi indie ed estremi di matrice Usa, aggiungendoci tuttavia, in ogni frangente degli aspetti molto personali, evitando di sembrare derivativi. Un esempio su tutti è l’aggiunta del sax di Luca Mai degli Zu su “Post crucifixion”, che ha un deragliamento verso il jazz noise circolare e paradossalmente quasi math. Gli oltre dieci minuti di “Black coffee breakfast” partono con un sound vorticoso e post-core, per poi prendere una strada talmente cerebrale da sfiorare l’assoluta razionalità. L’iniziale “Introducing my eye, in flames”, invece è un pugno nello stomaco che ci arriva direttamente dai bassifondi newyokesi di Chris Spencer e dei suoi Unsane, dove l’hc è soffocato che cova perennemente sotto la cenere, mentre “Clopixol” ha una tensione tirato allo spasimo, “The same breath”, invece, ha la cerebralità propria degli ultimi Tool. Catartici e coinvolgenti come pochi sicuramente sentiremo parlare dei Dead Elephant anche oltreoceano.
Autore: Vittorio Lannutti