Gli Heavy Trash di Jon Spencer e Matt Verta-Ray (ex Speedball Baby) stasera hanno come backing band i The Sadies, band canadese (vedi country&western – vedi psych&surf – vedi anche alt-pop & morriconian-roll) che è un peccato perdersi per gli orari da lager di Interzona, caso più unico che raro in Italia di puntualità per i concerti rock.
Una bollente fiesta nell’ex cella frigorifera dei Magazzini Generali di Verona ci descrive bene l’universo di sir Jon Spencer che continua a ridefinire le traiettorie stilistiche delle sue avventure sonore ma non modifica di una virgola il concetto che sottende la sua arte; se queste sue esplorazioni musicali prestano il fianco a tante penne vogliose, nulla aggiungono in termini espressionistici al suo show. E forse questa è la grande novità in un panorama rock in apparente continua mutazione ma in realtà spesso ripiegato su nostalgie da ‘eterno ritorno’ se non su facili entusiasmi che preannunciano grandi depressioni (e che danno poi vita a cose interessanti, a volte). La grande novità è che c’è qualcuno che riesce a urlare chiaro e forte che non gliene frega un cazzo se nella sua musica non c’è nessuna stronzissima novità. E non c’è spazio, almeno non qui, per speculazioni sull’essere d’accordo o meno su questa visione dell’essenza e del futuro del rock perché qui dentro, stasera, è un dato di fatto, da assumere o da andar via subito. E se la scena noise rock newyorkese del CBGB vede i Pussy Galore tra i suoi prime movers, se poi è un’infatuazione non per i Rolling Stones quanto per il loro eventuale patto con il diavolo (vedi Robert Johnson -vedi Muddy Waters – vedi anche Eddie Cochran) ad infiammare la combustibile miscela della Blues Explosion, ora è un rock roots e voodoo a dettare il movimento. Ma al di là di questioni un po’ da ‘lana caprina’, è l’uomo Jon Spencer che qui fortemente si esplicita; anche un certo rimando fisico a Nick Cave offre poi considerazioni che possono servire a comprendere la sua vis artistica, avendo anche l’altro australiano un’altissimo senso della tragedia e del peccato, sia con le gesta iniziali dei Birthday Party che poi, più in seguito, da solo. In Cave sembra che ci sia stata poi una forte tensione spirituale che ha lentamente illuminato le sue liriche e addolcito le sue ballads in un anelito di speranza che, se non ha fatto di Cave quello che esattamente si definisce un papaboy, lascia almeno presagire la sua entrata di diritto nella categoria degli atei devoti. In Jon Spencer questo non avviene perché nel suo boogie infernale c’è la certezza della dannazione, l’impossibilità della redenzione e il compiacimento estatico godereccio del rock ‘n’ roll: difficile rinunciare a tutto questo. La sua scrittura a tratti è talmente da manuale da risultare iperrealista e paradossalmente lontana dalle ‘realtà’ cui ha ben presente; è la vecchia storia dell’allievo che per indole ribelle affianca, sfida e supera i maestri salvo poi diventarne il figliol prodigo. E da un ipotetico olimpo rock scrutano muti Cramps e Gun Club, Stray Cats e Violent Femmes più tutta una serie di padri negri fondatori del genere degenere e Jon, che lo sa, suona e si diverte protetto da tante divinità. I brani sono lunghi, lunghissimi, perché l’ultima pennata di Jon non è mai l’ultima, ricomincia sempre dopo l’ennesima piegatina sulle ginocchia ed è sempre la stessa canzone anche se non è vero, ma tanto è uguale. Matt Verta-Ray è il Chris Isaak di un mondo senza MTV, perfetto gentiluomo del sud dalla chitarra elettrica molto alterata. E i Sadies anche, sebbene canadesi, incarnano una perfetta combriccola di mariachi, con tutta la loro scalcagnata strumentazione (sul palco – a tratti – quattro chitarre, violino, contrabbasso ed un organo che si affaccia allucinato). Si, è qui la festa. Volevate esserci eh?
Autore: A Giulio Magliulo
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