di Micheal Haneke, con Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert
Per fare un paragone è come se il cinema attuale fosse un tablet e quello di Haneke un manoscritto cistercense. Il Gutenberg della settima arte piazza il torchio (la macchina da presa) nei quattro vani di un appartamento parigino e non lo sposta di lì. Tra quattro mura ci lascia inchiavardati anche gli spettatori. Così si fa. Poi gira la manovella dei suoi campi e controcampi insistiti, sobri, biotecnici oppure va di piani sequenza in cui il quadro è immobile e i personaggi si muovono, piano, dentro. Il montatore intanto si è andato a fumare una sigaretta, più di una.
Trintignan e la Riva, due monumenti, parlano lentamente, scandiscono le parole e inesorabilmente lasciano spazio al terribile spettacolo: lo show down della vita. Volendo essere ermetici, stanno come d’autunno sugli alberi le foglie. Per uno spettatore televisivo una violenza simile non sarebbe tollerabile. Haneke, hanno scritto, è il regista più sadico in circolazione. Ma è anche il cineasta che dopo questa doppia dose di penicilline (il film è tosto assai, la differenza con Kim Ki Duk è che la casa dei 2 anziani non è in periferia ma in centro) ti fa guarire dalla dieta del cinema conformista.
Autore: Alessandro Chetta