Se n’è discusso così tanto che l’uscita in sala ha fatto meno scalpore del previsto, trovando già tutti fin troppo sazi di quelle immagini. Sempre la solita storia: la censura chiama, il Web risponde. Storia di una videocrazia
Tutto è iniziato quando le reti televisive – pubbliche e private – del Bel Paese hanno rifiutato di mandare in onda il trailer. Da lì in poi un passa parola in Rete ha incuriosito cinefili e non riempiendo le pagine del più noto social network di link partoriti da YouTube. La stampa ha avuto di che dibattere nelle calde giornate estive, proponendo argomenti diversi dalla “dieta dell’anguria”. Quello stesso film è riuscito anche a mettere d’accordo due delle sezioni più importanti della Sessantaseiesima Mostra del Cinema di Venezia e giunge così al Lido contemporaneamente nel cartellone della Settimana della Critica e in quello delle Giornate degli Autori, con tanto di code chilometriche per l’anteprima in sala.
Insomma, un vero e proprio fenomeno mediatico che ha preso il via troppo presto, rispettando comunque il solito copione: masse infuriate al primo tentativo di censura. Un po’ come dire che, dietro lo schermo di un pc, tutti si fanno forti.
Parliamo di Videocracy – Basta Apparire, il documentario firmato Erik Gandini, regista bergamasco d’adozione svedese che ha deciso di zoomare sul sistema televisivo italiano. C’è chi lo ha già definito il Michael Moore nostrano, chi invece lo ha accusato di poco coraggio, giocando su temi banalmente conosciuti dalle nostre parti. Eppure probabilmente un italiano residente all’estero era quello che ci voleva per puntare il dito contro un sistema ridotto alla mera presenza di un unico grande proprietario: il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Non fatevi illusioni, il suo controllo finisce per essere onnipresente, e magari ora sa che state leggendo questo articolo! Che la politica non debba fare i conti con l’informazione, quindi, non venite a dirlo all’Italia. Lo stivale più deriso del mondo deve avere le spalle forti per sopportare l’ennesima caduta di stile in pubblico, chiamata per l’occasione videocrazia (invocando quel ???t?? greco tanto caro all’arte del governare).
Protagonisti, stavolta, noti volti dello showbiz tricolore: ecco a voi Lele Mora, colui che le stelle le crea e le distrugge quando vuole; Fabrizio Corona, degno erede del sopracitato maestro che si è aperto la strada a suon di paparazzate ben vendute; e dulcis in fundo un allegro aspirante valletto – disposto a tutto per il successo – seguito nelle sue più ardue avventure, dalle serate di intrattenimento nella piazza del paese fino ai provini per X Factor. Numerose tra le specie più apprezzate dai palinsesti televisivi vengono riprese e analizzate come farebbe Piero Angela in uno speciale di Superquark, studiando il pelo di un tronista o la stagione di fecondazione di una velina.
Tutti ingredienti fin troppo noti al pubblico italiano, serviti in una salsa già sputata mille volte nel piatto. Il vanto di una doccia dinanzi alle telecamere del bel Corona (arcaica quanto obsoleta espressione di potenza maschile proporzionata alla dimensione fallica) cucinato insieme al succulento brodo di faccia di bronzo di un Mora che con fierezza lascia squillare il suo telefono a ritmo dell’inno che fu del Duce. Ma sì, cosa non abbiamo visto noi italiani di tutto questo? Subito dopo la proiezione del film ci sembra quasi d’aver sprecato tempo al cinema o alla diffusione su Facebook di quel trailer che i grandi hanno rifiutato. Il problema – quello serio! – sta nell’immagine italiana che rimbomberà in tutta Europa (peggio ancora se la pellicola dal promettente successo varcherà le soglie dei confini continentali). Il problema non si chiama Corona, quello che si dichiara preso in giro da Gandini (“Una persona furba e intelligente che mi ha presentato il film in un modo per poi sviluppare il tema in maniera diversa”, dichiara dall’alto della sua abbronzatura integrale). Il problema non ha neanche gli abiti bianchi indossati dal manager delle star del piccolo schermo. Il problema ha – purtroppo – i volti di tutti noi, quando al primo viaggio all’estero sentiremo dirci ‘Italia? Pizza, mafia e Videocracy!’. Ma tutto, ancora una volta, è cosa risaputa. La fama cinematografica ce l’ha data Fellini e ce la tolgono gli autori televisivi, sotto gli occhi impazienti del resto del mondo che vuol sapere cosa succede in Italy. Dite che niente di nuovo sorprenderà i nostri vicini? E invece il timore è proprio quello di stupire i compagni di banco del parlamento, e l’ovvietà di questo stupore riempie tutti di vergogna. Tutti. Anche il giovane protagonista dal talento incompreso finisce per dire in sala, in una riflessione post-proiezione, “Ma quasi quasi mi è passata la voglia di diventar famoso!”.
Lungi dall’impietosirci di fronte a simili scene, anche la nostra critica fa un passo indietro dalla semplice recensione di un documentario come Videocracy. Un’opera che, parliamoci chiaramente, non aggiunge nulla alla storia del cinema, ma che si presenta come l’ennesima degradante occasione per fare i conti con ciò che succede tra le mura nazionali. I panni sporchi si lavano in casa, ma se la tv – specchio della società contemporanea – finisce al cinema, anzi all’unica vera Mostra del Cinema, ci tocca chinare il capo e fare un esame di coscienza. Oppure la rivoluzione.
Autore: Micaela De Bernardo