La dittatura degli autori continua ad avanzare. Come un’incessante “onda” (con l’artrite e il cervello irrimediabilmente e tristemente incriccato), continua a mietere vittime lungo il suo corso. E’ il popolo dei cinefili con riserva. Quelli che si “sciroppano” polpettoni indigeribili e che sperano che il ritorno degli autori significhi il ritorno dei buoni film. Sognatori incalliti e anche un po’ deficienti che con una riserva di pazienza inverosimile e con un alto gradiente di speranza aspettano i vari Bellocchio, Bertolucci, Olmi, Avati. E puntualmente vedono i loro sogni calpestati e la loro sensibilità di -phìle maltrattata di fronte a tanta noncuranza se non addirittura incapacità.
E sì, perché due sono le cose: o questi grandi autori hanno imparato la lezione manzoniana (quella della merda d’artista, per intenderci) per cui tutta ciò che trasuda da loro è meraviglioso e degno di essere visto o in realtà questi grandi autori non sono per niente grandi e sono tutto ciò che c’è rimasto. Gianni Amelio ha deciso evidentemente di iscriversi al fronte dei dittatori (o forse è stato iscritto contro la sua volontà), di far parte di quella categoria di soggetti- artisti che crede di aver dato tutto e di potersi permettere di propinarci il frutto degli scarti del proprio tempo, giusto per fare una marchetta a qualche festival o pagarsi qualche rata dello yatch. Ma in un caso o nell’altro, sta di fatto che il suo ultimo film è piuttosto imbarazzante.
L’autore de “Il Ladro di bambini”, “Lamerica”, “Così ridevano” ha deciso di raccontarci la Cina. Di parlarci di un grande paese sconfinato, iperpopolato e di un grande popolo sottovalutato e perciò trattato con arroganza dall’Occidente.
Peccato che non è riuscito a dirci nulla di nuovo. Sono almeno cinque anni che ogni giorno ci assillano con la Cina: il pericolo cinese, l’economia cinese, il popolo cinese, i lavoratori cinesi, le fabbriche cinesi, il problema dei figli in Cina, l’occidentalizzazione dei costumi in Cina, che cosa mangiano i cinesi, come vivono i cinesi.
Almeno ci avesse emozionato. E invece niente. “La stella che non c’era” è un film scialbo, senza merito, con il solito Castellitto (è Vincenzo Buonavolontà manutentore di un altoforno difettoso venduto da una ditta italiana fallita ad un’impresa cinese) monocolore, mono-espressivo.
Un cieco, sorretto da una sceneggiatura monca. Non vediamo nulla attraverso gli occhi di Castellitto, non riusciamo ad afferrare alcun senso.
Non c’è dialogo. Non c’è tra i due protagonisti del film – il manutentore iperzerlante, che va fino in Cina per portare la centralina da lui artigianalmente modificata per evitare l’ennesima carneficina di operai, e la traduttrice, ragazza madre che lo accompagna alla ricerca del complesso siderurgico difettato – non ci può essere tra Oriente e Occidente; non c’è tra autore e spettatore, ci sono solo monologhi. Un giocattolo difettato che non ha alcuna utilità perché non si può più aggiustare.
È questa la fine della vecchia scuola autoriale italiana?
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