Il mio rapporto con Pino Daniele è sempre stato molto chiaro: è parte del mio patrimonio genetico fino al 1985, poi assoluta indifferenza per tutto quello che ha fatto dopo.
Non è una volontà draconiana a dettare questo mio comportamento, né una posa snobistica fine a sé stessa.
A voler essere ancora più analitici, non mi piace troppo neanche il primo album di Pino Daniele. Tutta la retorica che c’è dietro Terra Mia, per quanto messa giù in melassa folk in grado di far venire i lucciconi pure agli islandesi, mi butta troppo giù.
Ma era il 1977 e certi peccati di gioventù non solo devono essere perdonati, ma vanno compresi, soprattutto se sono la porta d’accesso ad un mondo meraviglioso di cui, per ragioni anagrafiche, ne avevamo solo sentito parlare: quello del blues e poi del jazz americano. Vera e cruda fusion. Non come quella raffinata e patinata di cui il nostro pur sarà valido rappresentante negli anni a venire. La ricerca del mainstream ci presenterà via via un personaggio sempre più adagiato su un linguaggio radiofonico in certi casi perfino irritante per la banalità dei testi e di alcune rime che hanno perso perfino la loro lingua originaria (che già era slang dal flavour unico) a favore di un italiano scarso di sale.
Il 1985 di Ferry Boat è dunque l’altro margine ed indizio della ormai forte internazionalizzazione di Pino Daniele a giudicare dalle forze dispiegate su quell’album.
Senza fare però ulteriore dietrologia che non è questa la sede, passerei alla serata in oggetto, poiché non dico una monografia, ma un articolo incentrato su questa prima produzione di Pino Daniele impegnerebbe chiunque per diversi mesi e fortunatamente come per tutto il patrimonio già dato in pasto alla memoria collettiva e da essa metabolizzato, non ce n’è bisogno.
La lusinga di quel Nero a Metà con tanto di membri della lineup originale paventata nel manifesto è troppo forte per resistere alla tentazione di non esserci. Non sono il solo a pensarla così: l’Arena di Verona è piena, in barba alle polemiche di questi giorni scatenate dalla mancata esibizione dei 99 Posse all’unico festival cittadino, l’VRBAN, ma se lo stesso si volesse intendere Verona città razzista, almeno stasera di certo non lo è.
C’è anche un’orchestra di cinquanta elementi, la Roma Sinfonietta, ed ospiti illustri – gli amici di Pino – a cimentarsi in improbabili duetti.
Li elenco solo per dovere di cronaca: Elisa, la più delicata, troppo delicata, impercettibile direi; la Mannoia che se non avesse tardato per l’aereo riusciva ad arrivare in tempo per qualche prova; Emma, ai confini del cattivo gusto ma che almeno ha dimostrato nella sua ostentata sguaiatezza di conoscerle davvero le canzoni di Pino; Francesco Renga, davvero pessimo e che non si capisce per quale patto scellerato sia legato all’artista partenopeo (la casa discografica? non lo so e non voglio neanche saperlo..) ed infine Mario Biondi che nonostante risulti il più affine a Pino Daniele nella condivisione dell’universo della black music, risulta incomprensibile quello che canta e come lo canta. Dell’assenza di Massimo Ranieri che pur doveva esserci, neanche una parola.
Ma – come ormai è chiaro – non ci interessa molto tutto questo.
Come cronista distaccato sono felice di confermare che al di là delle ‘evidenze’ nazionalpopolari il Pino Daniele post ’85 è ancora un grande artista fusion, uno di quelli che suona davvero, che può permettersi lenti assoli di flamenco su chitarra classica mentre dietro una sezione d’archi crea il fondale adatto all’evento e fior fiori di musicisti lo accompagnano alternandosi, tra cui il notevole Rino Zurzolo al contrabbasso. Noi aspettiamo però sempre la seconda parte dello show, con quei musicisti promessi nella locandina e che finalmente arrivano sul palco come una colorata e scalcinata armata brancaleone del ‘neapolitan sound’, quelli che han preso parte alla grande ondata innovativa della Napoli degli anni ’80.
Saranno anche naïf ma in quest’arena stasera sono osannati gladiatori: James Senese al sax, Gigi De Rienzo al basso, Agostino Marangolo alla batteria, Ernesto Vitolo a piano e tastiere, Rosario Jermano alle percussioni e Tony Cercola ai bongos.
Da quel momento in poi il concerto da acustico diventerà elettrico e si suoneranno solo le canzoni tratte da Nero a Metà (tutto l’album come promesso, inutile snocciolarne le tracce) tranne che nel bis finale di Napule è con tutti gli ospiti e la conclusiva Yes I Know My Way con tutta l’arena a ballare e cantare.
James Senese è comunque il capobanda, campione morale, la memoria storica, ‘o Nirone’, ‘Jamesiello’, ‘o figlie e guerra’, l’anello mancante tra il jazz-blues americano e il casbah sound dei quartieri spagnoli: un gigante.
Non c’è amarcord però, non c’è spazio per brividi di nostalgia. E’ troppo popular l’ambito emozionale entro cui si spazia e troppo avanti questi musicisti per non apparire ancora giovani nonostante qualcuno (vero James?) sia quasi settantino.
E Verona in piedi, in standing ovation, per delle canzoni napoletane di trentaquattro anni fa.
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autore: A.Giulio Magliulo