In concerto a Roma hanno conquistato l’italiano medio. Dopo il boom indie di “Alligator” nel 2005, la conferma ed il successo internazionale di “The Boxer” (2007) e “High Violet” (2010) i The National danno continuità ai loro lavori e sfornano un album introspettivo, un inno che sarebbe perfetto per la fine di un mondo bellissimo.
“Trouble will find me” è composto da tredici “fun songs about death”, melodie semplici e minimali che penetrano nell’esistenza del pubblico trascinandolo ai limiti dell’oblio. Una band matura e consapevole del proprio talento musicale che utilizza la sua carica emotiva per fini tutt’altro che metafisici: atmosfera cupa e malinconica, degna delle venature noir dei loro ispiratori Joy Division, testi che conquistano con ossimori e metafore coinvolgenti, struttura musicale perfetta ed armonica con la straordinaria sezione ritmica alla quale ci hanno abituato.
Caratterizzante, come sempre, la figura carismatica del cantante Matt Berninger, (sempre affiancato dai fratelli Dessner e Devendorf e da Padma Newsome) con la sua voce baritonale intima e confidenziale, nell’ultimo lavoro proposta in versione maggiormente controllata rispetto ai vecchi album, “educazione” che non comporta perdite di stile, tecnica o emotività.
La premessa, per cogliere a pieno l’energia di “Trouble will find me”, ci dice tanto sul peso emozionale che porta con sé: non è un album che travolge, bisogna dargli il tempo giusto per penetrare nella nostra intimità tramite un ascolto attento e ripetuto, dopo di che diventerà parte di noi stessi. Il primo ascolto suscita tante esperienze di dejà vu, “colpa” della poca volontà di sperimentare da parte dei The National: il synth ed il drumming sono novità inserite per soli bisogni stilistici, senza quasi mai cambiare le carte in tavola (il tutto rischia, a tratti, di diventare un esercizio di stile). Il dubbio è lecito: quanto un progetto, anche se dotato di classe innata come quello della band americana, possa continuare a proporre le solite soluzioni, certamente vincenti, prima che queste diventino prevedibili per il pubblico?
La risposta è nell’album: si parte con il pop decadente di “I Should live in the Salt”, ballata sul senso di colpa cantata da Berninger su tonalità più alte del solito, la solita introspettiva sui propri turbamenti esistenziali. I demoni di Demons e il ritmo nevrotico contrastante con la voce pacata di Berninger di “Don’t Swallow the Cap” (testo meraviglioso), portano avanti la prima parte dell’album: gli arpeggi che chiedono aiuto di “Fireproof”, l’amore sublimato di “Heavenfaced” e “This is the last time”, l’apparente perdita di controllo della band in “Sea of Love” che ci riporta alla loro musicalità indie-pop di “Alligator” e “The Boxer”, il testo ossimorico di “Graceless”, parente più vicina delle sezioni ritmiche made in Joy Division.
Nella seconda parte di “Trouble will find me” si entra in una maggiore intimità: con “Slipped”, “I Need my Girl” e “Pink Rabbits” si attraversano tutte le “mancanze” dell’esistenza: solitudine, voglia d’amore e medicine, che prendono il sapore di paradisi artificiali, per scappare da tutto questo.
Piacevole il passaggio di “Humilation” che nasconde venature di krautrock alternativo, senza mai perdere il marchio di fabbrica dei The National. La chiusura con chitarre e synth di “Hard to Find” ci trasporta in un atmosfera leggermente diversa, quasi metafisica, lontana da tutto il dolore e i turbamenti espressi nell’album: la canzone del trapasso, quella che, facendo ripartire il disco daccapo, ci ricorda la ciclicità della vita e della morte.
I National sono una band straordinaria, che nasconde tante contraddizioni, espresse con un timbro unico nel panorama musicale. Con l’ascolto di “Trouble will find me” si ottengono momenti musicali straordinari, connotati però da un’atmosfera di troppo “controllo”.
Berninger non si lascia trasportare dal disagio espresso, a differenza dei lavori precedenti manca il suo “aggrapparsi”, nell’attimo giusto, alle canzoni e alle emozioni suscitate dai suoi lavori.
Eccessivamente maturi, sulla strada dell’adagiarsi troppo sulla loro grandezza o semplicemente amanti e coinvolti totalmente nel loro sound? La risposta ce la darà il pubblico, o il prossimo lavoro firmato The National.
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autore: Natale De Gregorio