Per una trasformista doc come lei, assumere una veste significa assumere una maschera temporanea, da cambiare alla prossima occasione. Perciò, se ci aveva abituato fin qui a maschere pagliaccesche, costumi inquietanti e trucco pesante Karin Elisabeth Dreijer Andersson, in arte Fever Ray, questa volta ci sorprende con un nuovo look, il dandy gender fluid della copertina di Radical Romantics, il terzo disco dall’esordio solista del 2009 con l’album omonimo. Ma la veste aggressiva e provocatoria rivela poi un album dalle caratteristiche testuali quanto mai intime e emotive per una cantante estroversa e istrionica come lei, perciò Karin oggi è anche, come si definisce lei stessa dal titolo del nuovo disco, una romantica radicale.
Come duo, col fratello Olof, nella sigla The Knife, con voce e sintetizzatori provenienti dai ghiacci della Svezia, Karin ci aveva già abituato a eccessi e trucchi. Adesso, dopo ben sei anni dal suo secondo disco solista, Plunge, Karin ritorna e per l’occasione ritrova appunto il fratello, anche se stavolta in veste di solo collaboratore. Rispetto a Plunge, dove la figura del giullare era calzata a perfezione per criticare la società e i suoi stereotipi, in Radical Romantics Karin parla invece di cose intime come i sentimenti (“I just wanna be touched, I just wanna shiver”).
La comparsa di Olof, e il marchio The Knife, si fa sentire soprattutto nei primi quattro brani del disco, che inizia con un gelido e scarno ritmo afro in What they Call Us, per poi proseguire con Shiver in cui è ancora presente un richiamo etno, soprattutto grazie alle percusssioni, vera novità interessantissima del disco, che ritroviamo ancora in New Utensils. Fin qui, sembra in pieno un disco di afro music, dove i ritmi la fanno da padrone molto più che i sintetizzatori o gli effetti sonori, fino ad arrivare al singolo Kandy, prima canzone “più calma”, cantata da Karin con voce soffusa, per accompagnare il tono dolce, caldo, intimo, del racconto testuale.
Fa da contraltare, immediatamente, il secondo singolo Even it Out, che a metà disco fa volgere completamente il sound: ritroviamo qui l’elettropop dark e duro, e per l’occasione Karin canta con voce stridula e aggressiva, i ritmi sono industrial e il pezzo ha un effetto immediato, trascinante, spettacolare, esattamente in stile Fever Ray.
Si avvertono in questa seconda parte del disco gli altri collaboratori: Vessel (Young Echo e El Kid) e soprattutto il duo Trent Reznor e Atticus Ross (ex Nine Inch Nails): c’è subito la svolta elettronica, che in Looking for a Ghost ammicca sia per tastiera che per modo di cantare all’elettronica giapponese, mentre il terzo singolo Carbon Dioxide dopo una curiosa introduzione eighties ritrova la voce stridula e i ritmi danzerecci.
Insomma, la presenza di ex Nine Inch Nails e di un produttore come Vessel si fa sentire, e fa cambiare i giri del disco: spariscono le percussioni, e fa da padrone il sinth. Ancora una svolta però negli ultimi tre pezzi: con North Karin ritorna a cantare in soffuso, per una ballata elettronica e suggestiva, la più “scandinava” del disco senza dubbio, con Tapping Fingers, splendida e preziosa nella sua introversa intimità, si mescolano i ritmi afro dei primi pezzi a una scelta ritmica e di sinth che ricorda da lontano i Depeche Mode più notturni, e infine con Bottom Of The Ocean: l’album si chiude senza canto, ma con vocalizzi ecoizzati accompagnati da sfumature musicali che vorrebbero (ma onestamente non riescono) richiamare gli abissi del mare.
In sostanza, un disco dichiaratamente diviso in tre parti, e perciò apprezzabilissimo, probabilmente la punta di diamante della sua ancora giovane carriera solista, nella quale Karin ha per ora mostrato il grande talento di sapersi rinnovare a ogni disco senza riprodurre formule sterilmente ripetute.
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autore: Francesco Postiglione