Fecero anche una capatina in quel di Torre del Greco i Billy Mahonie. Classico concerto di metà settimana in cui andare è pur sempre meglio che restare a casa. Non era molto ben chiaro chi fossero. L’unica curiosità, in mancanza di altre notizie su di loro, sembrava essere il contrasto tra la provenienza britannica dei componenti e la matrice, marcatamente americana del loro rock strumentale.
Post-rock? Già, l’orribile creatura era, ed è ancora, nuovamente tra noi. A momenti, specie a sentire i diretti dis-interessati, verrebbe davvero da odiarla, bollarla a degenerazione intellettuale e poseur del rock ed esecrarla vita natural durante. Ed è in momenti come questi che l’eterna indecisione su quale possa mai essere, e se mai esista, il proprio “genere preferito” (discorsi da ragazzini, ok, ma chi è che non si è visto rivolgere, anche da un trentenne, una simile domanda?) dispiega i suoi effetti positivi, salvando dalla condanna anche lui, il rock-non-rock dei 90 e oltre.
Nel caso dei Billy Mahonie, peraltro, ci sarebbe un bel discorsetto d afare a proposito di ispirazione, creatività, originalità. All’epoca del concerto non avevo ancora ascoltato “What Becomes Before”, talchè la straripante opening-track (‘Fishing with a Man for a Shark’) mi fu scaraventata in faccia – sempre in apertura, ma di concerto – da Gavin Baker e soci sì da occupare non poco spazio della mia “mentale libreria musicale dal vivo”. Un vibrante esemplare di interludio strumentale – con grande enfasi sulla sezione ritmica – che cresce fino a esplodere in un riffone ultra-metal da tenere a stento i piedi piantati a terra e la testa in modalità riposo-da-headbanging.
L’episodio non aveva praticamente simili nel resto di quel disco, e ciò lasciava un’ombra consistente sull’identità del quartetto, che vedeva affidata la propria riconoscibilità ad un’isola propriamente rock in mezzo a del post-rock più standard, seppur di fattura tutt’altro che mediocre. Nel frattempo la band cambia volto per due quarti, accogliendo finanche un ex-Stereolab come Duncan Brown al basso. Ancora niente voce per questo 2004, e inoltre i brani prendono a dilatarsi notevolmente, sì da ridursi, in questo “Dust”, ad appena 5 (per circa 35 minuti di musica).
L’appeal da lenta jam strumentale diventa conseguentemente ancor più accentuato, palesando, ancora una volta, quella che dev’essere più di una semplice affinità con l’asse Chicago-Louisville. Fermo restando che in Gran Bretagna a poco a poco stanno imparando a fare ‘ste cose, fermo restando che non tutti i 35 minuti di “Dust” sono la stessa, immutabile, storia. Rock pesante? In qualche modo i Billy Mahonie riescono pur sempre a mettercelo: stavolta è ‘Red Crow’ a farsi carico di seminare un po’ di adrenalina nel pubblico, con quella tensione-reiterazione da mutuo decennale con gli Unwound che culmina in un rock’n’roll, come allora, a livelli quasi eccelsi. E poi, in chiusura, avete notato come possa bastare un banjo a inventare una sorta di post-bluegrass (anche qui, tutto sommato, ci scappa un altro mezzo mutuo, stavolta coi Califone)?. E a margine, sul loro website, avete visto che cacchio di colori le copertine dei loro dischi?
Autore: Bob Villani