Genitori superstar: il padre artista incompreso di Rubini (“L’uomo nero”) e la mamma svampita di Virzì (“La prima cosa bella”)
Il padre, figura controversa, carica di ambivalenze sentimentali, punto di riferimento e allo stesso tempo ostacolo, è l’elemento intorno al quale ruota l’Uomo nero, l’ultima opera di Sergio Rubini. Un poetico ritratto paterno, sofferto e contradditorio, che crea un superlativo pendant con “La prima cosa bella” di Paolo Virzì dove è la figura materna ad essere fulcro della narrazione.
Verrebbe da pensare chissà come mai entrambi i registi abbiano scelto proprio ora di fare i conti con le loro figure genitoriali e chissà perché, come Tornatore, abbiano sentito l’esigenza di tornare alla terra d’origine. Virzì ha raccontato di aver voglia di rassicurazione, visti i tempi che corrono; Sergio Rubini invece pare sia stato mosso soprattutto dalla voglia di lavorare con lo sceneggiatore Domenico Starnone.
“Il motivo primo per cui ho voluto fare questo film – ha dichiarato l’attore/regista– è stato quello di tornare a lavorare con Starnone, col quale condivido molte cose. Ad esempio abbiamo tutti e due un padre che è stato ferroviere, e che aveva ambizioni artistiche. Insieme a Carla Cavalluzzi, che è la mia collaboratrice abituale alla sceneggiatura, formiamo un gruppo di lavoro variegato ma del tutto armonioso. Io di solito spiego loro le scene che voglio realizzare interpretandogliele davanti agli occhi, spesso addirittura recitando loro tutti i personaggi, e poi Domenico e Carla mi dicono precisamente quello che va bene e quello invece che va tagliato o risistemato. Per quanto riguarda L’uomo nero, all’inizio avevamo paura che fosse troppo bozzettistico, che avesse personaggi interessanti ma slegati tra loro. Poi dopo varie stesure della sceneggiatura il nostro timore invece è stato esattamente l’opposto: ci sembrava che il film fosse troppo strutturato a livello narrativo. Io volevo fare un film che avesse un “sapore” specifico, quello della mia terra d’appartenenza la Puglia, senza però per questo essere provinciale. In fondo se un autore non racconta se stesso cos’altro può raccontare?”.
Guai però a vedere nel figliol prodigo, accorso al capezzale del padre dopo essere fuggito dal paesello pugliese per diventare un professionista di successo in Svizzera, lo stesso Rubini. La sua non è un’autobiografia – o almeno lui così ci tiene a precisare – anche se dati biografici e finzione si amalgamano perfettamente dando forma ad un racconto troppo vero per essere soltanto verosimile, dove l’autore miscela un po’ tutto il suo percorso artistico e se la prende, ancora una volta, con la critica ignorante e bacchettona. Incapace di vedere l’arte del suo Ernesto Rossetti tanto quanto la sua. Come nota Marco Toscano su Duellanti, sembra quasi che “il regista attore sentisse la necessità di porsi e farsi riconoscere come artista. Una sorta di complesso d’inferiorità, evidente nelle recriminazioni nei confronti di una certa critica della quale Rubini continua – dopo il ben più ambizioso “Colpo d’occhio” – a indagare e stigmatizzare il potere manipolatorio, smussandone solo apparentemente la ferocia”. Per fortuna che l’attacco alla critica non toglie al regista quel suo gusto particolare di raccontare sempre in bilico tra il sogno e la realtà, tra romanticismo e irriverenza. Il tutto senza mai perdere di vista le proprie radici culturali.
Come nota Cristina Piccino su Il manifesto, nulla in comune con Tornatore che con infinita prosopopea ha la pretesa di scrivere la storia con la S maiuscola. La storia di Rubini è tutta personale, filtrata con gli occhi ingenui di Gabriele dove tutto è o bianco o nero e dove le liti tra genitori bastano a ripudiare il padre fino alla morte. Ma sono gli stessi occhi del ragazzino ad immaginare saltibanchi e arlecchini uscire dagli armadi, i fantasmi dei nonni da giovani, Cezanne girare tra i corridoi di un piccolo museo di provincia e un inquietante uomo nero dall’animo buono, affettuoso omaggio a Fellini. E allora con la Piccino “ci piace pensare che quel padre di Rubini sia anche lui, Federico Fellini, l’altro padre che lo ha reso famoso con l’Intervista e che nell’ultimo periodo della sua vita venne non trattato male dalla critica ma messo fuori dal cinema e attaccato da Berlusconi quando si schierò contro le interruzioni pubblicitarie dei film in tv”.
Buone le interpretazioni della Golino e di Scamarcio, perfetto nella parte del saltimbanco. Bravissimi i caratteristi a partire da Maurizio Micheli. Toccanti le interpretazioni di Fabrizio Gifuni, del piccolo Guido Giaquinto e di Sergio Rubini. Ottimi il lavoro di scrittura, la fotografia di Fabio Cianchetti e il montaggio di Esmeralda Calabria. Deludenti e già sentite, le note di Nicola Piovani, che ricordano un po’ troppo La vita è bella.
Autore: Michela Aprea