Per Radical Face (all’epoca Ben Cooper), musicista poliedrico della West Coast (Jacksonville, Florida) si sprecano i numeri e i complimenti, al lancio del suo nuovo disco, The Family Tree: The Branches: il precedente The Family Tree: The Roots ha raggiunto la posizione 20 della classifica dei nuovi artisti di Billboard, alla 3 nella classifica dei Singer-Songwriter di iTunes e alla 2 nella classifica folk di Amazon, mentre il brano di debutto Welcome Home, grazie anche alla pubblicità della Nikon di cui faceva colonna sonora, ha avuto 16.5 milioni di visualizzazioni su You Tube. Quanto alle lodi, lo si è paragonato a Bon Iver, Mumford and Sons e The Lumineers, di fatto etichettando il suo stile con appartenenza al genere folk.
Ma Radical Face è più che folk: intanto perché la sua strumentalità non si limita alla chitarra acustica (che certo è preponderante, almeno nei primi pezzi), ma al pianoforte, alla batteria, e a un’intera orchestra di strumenti tra i più vari. E poi perché, nel corso dello scorrere del disco, il suo iniziale approccio folk (e sarebbe meglio definirlo post-folk o alternative folk) si allarga a contemplare orizzonti musicali più ampi, con echi di Icelandic e di post-rock melodico.
L’album è davvero una galleria musicale: dagli echi post-folk alla Josh Tillman di Grey Skies, Holy Branches, Reminders, ai passaggi centrali alla Simon & Garfunkel di The Mute, Summer Skeletons, e The Crooked Kind, predomina la chitarra acustica, ma con Chains, Letter Home, The Gilded Hand, il disco si eleva verso altri generi man mano che entrano altri strumenti (soprattutto la batteria) e la melodia tende più all’epico.
Sarebbe già abbastanza per definirlo un piccolo capolavoro, ma c’è dell’altro. L’album, come suggerisce il pre-titolo, è il secondo episodio di una triade di concept-album incentrati sulla storia di una famiglia fittizia e spettrale del 19° secolo. E per rendere omaggio a un’ambientazione narrativa alla Steinbeck, Radical Face ha scelto nel primo disco (precedente a questo The Branches) di usare solo strumenti che fossero reperibili tra il 1850 e il 1900, mentre adesso per raccontare la seconda generazione usa strumenti reperibili all’epoca degli anni ’20-‘30.
«Mi piace raccontare storie e volevo che questo fosse l’elemento principale. Ho esaminato alberi genealogici e studiato un po’ di storia americana per avere qualche riferimento, poi ho attinto dalle esperienze personali e ho unito tutto.»
Il connubio musica-ambientazione storica è sicuramente la sua idea più originale. E dietro c’è una ragione ancora più originale, se si pensa che Ben si è tuffato nella musica perché per via di un hard disk si è rotto ha perso due romanzi quasi completi.
Però l’originalità di questo disco resta soprattutto musicale: a una voce tutto sommato poco flessibile, sicuramente dolce e melodica ma non particolarmente timbrata, Radical Face fa accompagnare un ensemble di chitarre, (acustiche e classiche anche contemporaneamente), pianole, strumenti a fiato, e tante percussioni, che elevano la melodia a momenti di puro lirismo e talvolta ad appassionati crescendo epici, come in Southern Snow
Un album magico, praticamente confezionato già perfetto, che riesce senz’altro ad andare ben al di là degli appassionati di genere, e anche oltre il tempo, se è vero che nel raccontare la storia di una famiglia del vecchio west con strumenti pure dell’epoca la musica si fa colonna sonora attualissima, viva e fresca grazie a un innato senso della melodia.
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autore: Francesco Postiglione