“Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente”, recita il Canto III dell’Inferno di Dante Alighieri… e Colin Stetson con “The Love It Took To Leave You” (Invada Records UK/Envision Records) ha degnamente celebrato la sua catabasi.
Va detto che stiamo vivendo un periodo di gran fermento e di splendide pubblicazioni che vedono come strumento principe il sassofono nelle sue molteplici declinazioni.
Di recente, su queste pagine, si è scritto della bellissima collaborazione tra i The Messthetics e James Brandon Lewis e, sempre di Lewis, dell’altrettanto riuscito “Eye of I”; ancor prima si è parlato dell’ottimo “Coin Coin” di Matana Roberts. e poi anche del riuscito “Fearless Movement” di Kamasi Washington.
Di ottobre è, poi, “Blues Blood” di Immanuel Wilkins (sassofonista che abbiamo già “incontrato” in “Beyond This Place” di Kenny Barron).
Ora è, dunque, giunta la volta di Colin Stetson con il suo ottimo “The Love It Took To Leave You”.
Tracciare una rotta della ricca carriera discografica di Stetson è impresa ardua avendo, in circa un quarto di secolo, toccato svariati porti, ora solisti, ora in gruppo (come con i Ex Eye – da segnalare il bell’omonimo disco ai confini con il “Metal”), ora fatti di collaborazioni/partecipazioni illustri (come con Mats Gustafsson, BadBadNotGood, The Chemical Brothers, Tom Waits, Arcade Fire, Animal Collective, Bon Iver, TV On The Radio e persino David Gilmour…), ora come compositore di (tante) colonne sonore.
Alcuni suoi dischi hanno poi visto la presenza di nomi noti quali ad esempio Laurie Anderson in “New History Warfare Vol. 2: Judges” del 2011, secondo volume della nota trilogia composta da “New History Warfare Vol. 1” del 2007 e “New History Warfare Vol. 3: To See More Light” del 2013, spina dorsale della produzione di Stetson.
Quello che è certo (ed è anche una costante), è che Stetson abbia contribuito a reinterpretare ed estendere la tecnica del sassofono codificando un linguaggio proprio e peculiare.
Quando ero ragazzo, nella prima metà degli anni novanta, spopolò il videogioco “DOOM” la cui ambientazione era calata in un inferno fantascientifico… ed è stata questa la prima sensazione che mi ha trasmesso l’ascolto di “The Love It Took To Leave You”, lavoro che si presenta con un titolo “sofferto” e che con il suo scorrere immerge via via l’orecchio in una catabasi (appunto) tanto infernale (da qui il richiamo a Dante in apertura) quanto in alcuni “frame” “science-fiction”.
Dopo “All This I Do For Glory” del 2017 (da citare “Between Water and Wind” e “The Lure of the Mine”), Stetson il suo “Cerberus”, con il fratello “Orthrus”, li aveva già liberati con il “mostruoso” “Chimæra I” del 2022, a cui era seguito, l’anno successivo, il più morbido “When We Were That What Wept For The Sea”, lavoro che aveva lasciato un buon segno soprattutto con il bel brano eponimo, con l’ottima “Infliction” (che avrebbe potuto trovare posto tranquillamente su “The Love It Took To Leave You” insieme a “Behind The Sky”), con l’accogliente “Passage”, con la mistica “Long Before The Sky Would Open” e che, come suggeriscono anche dal titolo “One Day In The Sun”, “The Surface And The Light” e le diverse “The Lighthouse”, era ispirato da una trasversale luminosità che in “The Lighthouse III” trovava addirittura la forma canzone con l’ausilio di Iarla Ó Lionáird, mentre in “The Lighthouse IV” diventava, nel suono, quasi “didascalica” (caratteristica di Stetson è l’enorme capacità di descrivere con i suoni immagini, riuscendo spesso comporre brani strumentali con un’esatta assonanza tra titolo e musica) e in “Safe With Me” salvifica.
Con “The Love It Took To Leave You” Stetson ha “spento la luce” ed è tornato solista (“All songs performed live by Colin Stetson on solo alto and bass saxophones and contrabass clarinet (no overdubs/loops) …” si legge nelle note di copertina) e, in continuità con il citato “When We Were That What Wept For The Sea”, recuperando schemi passati, ha poi dato “ordine” mettendo da parte le pure “astrazioni” per un’esecuzione più “coesa” e narrativa.
Un “lamento” teso apre “The Love It Took To Leave You” (il brano eponimo) prima che una sostenuta pulsazione faccia da sfondo a “getti” di fiati in divenire sempre più claustrofobici… fino a quando, con la splendida, “The Six” non inizi vorticosa la discesa tra psicotici labirinti, dedali che diventano intricati in “The Augur”, stretta tra reminiscenze che suonano come elettronica e musica classica, per un brano che chiude un Side A di grande spessore.
Girato il primo vinile, “Hollowing” macina incredibili automatismi industriali che si spengono nel cadenzato e dannato sabba di “To Think We Knew From Fear” prima che un rito sacrale venga celebrato con la splendida “Malediction” che, in pulsazione e rotazione, libera canto e tensione.
In “Green And Grey And Fading Light”, su sfondi che nuovamente suonano come elettronica, si inabissano le voci dei fiati.
Messo sul piatto il secondo vinile, il Side C è occupato interamente da “Strike Your Forge And Grin” (che a suo modo prosegue quanto da ultimo scandito in “Chimæra I” con “Orthrus” e “Cerberus” – un triplo vinile con i tre brani sarebbe stata monumentale opera), summa di asfittici bordoni, di malsani, morbosi, mefitici “rantoli” e di sordi battiti. Con “Strike Your Forge And Grin” le sirene dell’opificio del Diavolo suonano e chiamano a raccolta le anime dannate. Impressionante è come Stetson riesca ad essere dinamico e a scuotere anche con un’apparente paludata stasi che resta tale pure nell’improvviso cambio (in aumento) di tempo e quando il lamento diviene invocazione.
Se con “Ember” tornano barlumi di luce e di melodia, “So Say The Soaring Bullbats” (ri)getta l’ascolto tra (o)scure presenze erranti tra respiri e fuochi fatui.
“Bloodrest”, anch’essa tra i brani meno cupi, chiude “The Love It Took To Leave You” restituendo nel finale una acquisita speranza che la catabasi possa divenire anabasi.
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