di M. Garrone, con A. Arena, L. Simioli, N. Paone, N. Schiano
Divertente e spiazzante realismo magico. Questa sorta di riuscito upgrade di “Miracolo a Milano”, nel senso di favola metropolitana, rispetta in pieno i canoni garroniani. Piani sequenza estenuati, tipi balzacchiani, ossessione compulsiva (ricordate i pruriti di Mahieaux nell’Imbalsamatore o la follia anoressica di “Vero Amore”?), farsa e dramma. Ma, a dire il vero, si fa stringere un po’ tanto dall’abbraccio della pingue famiglia scarpettiana messa al centro della storia, ambientata nella crollante Villa Pignatelli di San Giorgio a Cremano.
“Reality” non è il miglior lavoro di Garrone ma resta di gran lunga sopra le media dei film italiani. Il rischio, a larghi tratti, è sfociare nel bozzettismo di Castellani più che di De Sica. Lo stesso Nando Paone, eccellente attore di carattere, appare sacrificato nelle vesti di un mistico grillo parlante.
Un piccolo neo per un lavoro certamente di quadratura internazionale, che galoppa lontano dal profilo basso delle nostrane proposte alla Bellocchio: la sua “Bella addormentata”, al di là del tema toccante, non valica le Alpi laddove “Reality” o anche “L’Intervallo”, pur essendo “di paese” parlano al mondo. E guarda caso entrambi sono ambientati a Napoli e nel suo hinterland. Città-villaggio che sa filtrare in modo originale anche gli show tv più globali, come il Grande Fratello. La commedia non è un registro facile per chi, come il regista romano, calca la mano sull’anima nera dei personaggi, e nella scatola di “Reality” più che angeli caduti in volo ci ritroviamo simpatici teatranti e guitti da rivista.
La medaglia si rovescia se mettiamo a fuoco i protagonisti. Perfetto Aniello Arena, detenuto con la recitazione nel sangue, un profilo alla de Curtis, da angosciante pierrot partenopeo. Molto brava Loredana Simioli, che per curriculum televisivo è caricaturale ed esplosiva, e qui viene pericolosamente lanciata nel ruolo di donna di popolo. La sua “Maria” riesce invece a trattenere cafonerie folkloristiche restituendo pathos. Nei primissimi piani e nelle inquadrature pittoriche mai compiaciute (al contrario di Sorrentino), nel grande rispetto per la storia che narra e per la concatenazione fiabeggiante alla Andersen, riecco emergere alla lunga lo stile del solito, inappuntabile, Garrone. In più, grazie ai collaudati Braucci (sempre più mattatore dietro le quinte del nostro cinema) e Gaudioso alla scrittura, sa involàrsi sopra le righe della balordaggine surreale, dove reality e realtà coincidono.
Una svolta ambiziosa che se non ben dosata rischia l’onirismo felliniano senza essere Fellini, il trauma a occhi aperti pittoresco e autoriale, di “Giulietta degli Spiriti”. Invece, e l’ha dichiarato Garrone stesso, il modello di riferimento è stato il più terragno “Sceicco Bianco”. Centrato in pieno.
Autore: Alessandro Chetta