Rock, metal, crossover, hip hop, jazzcore, colonne sonore, musica nativa americana: per chi conosce un po’ la multiforme carriera di Mike Patton, ma anche solo l’eclettica discografia dei Faith No More, è difficile stupirsi per un nuovo progetto del cantante californiano. Eppure, quando iniziò a circolare la notizia di un tour e di un relativo album in cui Patton avrebbe reinterpretato canzoni pop italiane anni ‘50 e ‘60 con un’orchestra, la curiosità era inevitabilmente alle stelle, soprattutto per i fan italiani o per chi lo conosceva solo per le sue imprese con i FNM. Uscito nel 2010, ‘Mondo Cane’ fu un piccolo successo che non ha avuto un seguito in studio, e che però ha dato il via ad un’attività live discontinua ma di grande qualità, con la collaborazione di musicisti italiani di alto livello esportati in Sud America, Australia, Stati Uniti, un po’ ovunque tranne che alla nostre latitudini. Così, a dieci anni da quel primo tour, è stato invece con entusiasmo che qualche mese fa è stata accolta la notizia del ritorno di Mondo Cane nel Bel Paese, per due concerti a Prato e Milano. Con il palco montato giusto davanti al Duomo medioevale della città toscana (al lato del quale, casualmente, campeggia anche una sorta di rosone murato a stella ottagonale molto simile al simbolo dei Faith No More), la rassegna ‘Prato//Settembre è Spettacolo’ sembra essere l’occasione giusta per il ritorno ‘a casa’ di un progetto formalmente internazionale, ma italiano per vocazione.
Sono le 22 quando, con un’oretta di ritardo, prende posto sul palco la sezione archi della Camerata Strumentale di Prato, che in spirito di collaborazione con il tessuto musicale locale accompagna la band per tutto il concerto; seguono batteria, percussioni (le due quote USA), chitarra, basso, tastiere, il direttore d’orchestra, le tre coriste e i due jolly Enrico Gabrielli e Vincenzo Vasi, blasonati polistrumentisti sicuramente noti a chi segue un la scena musicale italiana. E poi ovviamente Mike Patton, assiso su una sedia a centro palco, con un tavolino di aggeggi vari alla sinistra, giacca nera, qualche chiletto in più dell’ultima volta e un paio di curiose treccine che si scioglieranno durante il concerto. Una formazione ridotta rispetto a quella del tour originale, ma la qualità degli arrangiamenti rimane la stessa.
Si parte a bomba con due pezzi forti, forse un po’ ‘bruciati’ dalla posizione in apertura, l’incantevole ‘Il cielo in una stanza’ e la spacconata hardboiled ‘Che notte!’ di Fred Buscaglione. Romanticismo all’italiana al suo meglio (quella di Gino Paoli è forse una delle canzoni d’amore più belle scritte nella nostra lingua), swing adrenalinico con tanto di pistola finta, sirena a manovella e parentesi rumorista, l’accento irresistibile di Mike Patton e la sua vocalità, insomma, Mondo Cane in a nutshell.
La scaletta segue quella del disco nella sua tripletta iniziale, chiusa dall’incedere drammatico di ‘Ore d’amore’ di Fred Bongusto, per poi deviare su ‘20 km al giorno’, una delusione d’amore raccontata in chiave ironica da una perla nascosta di Nicola Arigliano che trasuda anni ‘60 italiani da ogni poro, per uno dei momenti migliori del concerto (nonostante qualche piccola dimenticanza nel testo). Tutt’altra atmosfera segna ‘Quello che conta’, la malinconia esistenziale di Tenco e il tocco magico di Morricone, con un colore quasi western qui reso da voci e theremin, in un momento magico dai versi perfetti per questo ultimo giorno di agosto, con le piogge settembrine che già bussano alla porta. Un altro salto di mood con la successiva ‘Urlo negro’, uno degli highlights del disco e del live, con l’intuizione rivoluzionaria dei The Blackmen, quella del contrasto fra le urla della strofa e il ritornello twist, rilanciata dal lancinante scream di Patton e da una voce distorta al parossismo. E’ uno dei momenti in cui il cantante abbandona la sua postazione sedentaria, aggirandosi inquieto e urlando nella sua classica posizione accovacciata, per la gioia di tutte le magliette ‘Faith No More’ in platea.
“Lo sai che cosa hai fatto a me? Non farti più vedere da me!”
Il bello di un live così è la possibilità imperdibile di ascoltare “nuove” canzoni: la prima è ‘Doce doce’ di Fred Bongusto, straziante pezzo in napoletano che è il primo omaggio della serata alla musica partenopea, e seguirà poco dopo ‘Pinne, fucile ed occhiali’, fondamentale momento estivo che incarna l’anima più leggera e gaudente dei favolosi anni ‘60. Non prima, però, della seconda puntata nell’universo morriconiano con la bellissima ‘Deep Down’, direttamente dalla colonna sonora del Diabolik di Mario Bava all’energica interpretazione di Mike Patton.
Il cantante inizia a concedersi qualche pausa, gigioneggia col pubblico sfottendolo in un italiano ottimo ma pieno di inflessioni e termini siciliani, romani, napoletani e così via, in quel classico pastiche del bel paese quasi inevitabile negli occhi di uno statunitense, anche un conoscitore della cultura nostrana. Finge di non voler suonare e di prendere male cori e incitazioni, ma sembra quasi serio quando prima di ‘Scalinatella’ di Murolo intima il silenzio per ascoltare ‘sta cazzo e’canzone’, seguito da opportuna reazione minacciosa quando qualcuno approfitta del silenzio per gridargli qualcosa. E’ una canzone radicalmente diversa dal resto della scaletta, non solo per la lingua ma per l’inconfondibile malinconia partenopea che la permea, presa dalle mani e dalla voce di uno degli interpreti più autentici della canzone napoletana e resa con un fedele arrangiamento di chitarra su cui si insinuano gravemente prima il sax di Gabrielli, poi gli archi e il resto dell’orchestra per il finale struggente: “Addó’ se ne pò ghí / Chi è stanco ‘e chiágnere?”. Nella particolarità di questa scelta, forse è possibile leggere anche un omaggio alla fondamentale influenza melodica e poetica della canzone d’amore napoletana sulla concezione di musica pop romantica, e non solo di quella italiana.
Si torna al pop italico con ‘L’uomo che non sapeva amare’ di Fidenco, segnata dal bellissimo gioco di voci fra le coriste e un Mike armato di megafono, e la classica ‘Canzone’ di Don Backy.
La scaletta dell’album si avvia alla fine con ‘Ti offro da bere’ di ‘Giannone Morandi’ (sic), quindi c’è spazio per qualche altro ‘inedito’: l’incalzante ‘Storia d’amore’, tipica spacconata alla Celentano, e ‘Yeeeeeeh!” dei The Primitives, il momento più classicamente rock del set. La conclusione della prima parte della scaletta è affidata a ‘Senza fine’ di Gino Paoli, che come nella tracklist del disco chiude il cerchio con il brano di Paoli in apertura. Quasi non si spera nel bis, ma Patton tornano dopo poco sul palco e, facendo finta di non averne affatto voglia, fanno prima un brano e poi addirittura altri tre, sgamando la bugia: si vede che il signor Patton è entusiasta di rimettere mano a questo repertorio, soprattutto di rifarlo in Italia, e con lui tutti i musicisti che hanno l’occasione di dare vita a qualcosa di così peculiare.
Il bis consiste di una doppietta di Modugno, la napoletana ‘Sole malato’ e ‘Dio come ti amo’, e un altro gioiello di Buscaglione. Oltre che un cantante Fred è stato soprattutto un personaggio, e le sue canzoni concedono anche a Patton di recitare un’altra parte, stavolta quella sorniona e fascinosa del seduttore fallito di “Questa sigaretta”. Rimane davvero solo “il tempo di questa sigaretta”, quello della chiusura affidata ad un regalo a tutti i fan di Mike Patton, l’unico pezzo non italiano ed extra-Mondo Cane della scaletta: una spettacolare ‘Retrovertigo’ dei Mr.Bungle, gloriosa nella sua veste trip-hop magnificata dall’orchestra, in un crescendo coronato da un ritornello esplosivo.
Si conclude così un set che, come il disco da cui è tratto, permette di fare qualche considerazione d’insieme, prima di tutto sulle affinità e le divergenze fra le mille sfaccettature della musica italiana anni ‘50/60, che vanno dalla canzone più spensierata a quella d’autore, passando per le colonne sonore all’italiana, la canzone napoletana, lo swing e il beat. Linguaggi musicali diversissimi ma con più di un minimo comun denominatore, correttamente messo in risalto da Mondo Cane: innanzitutto, l’essere figli di uno stesso momento storico culturale, di cui trasportano tutto lo spirito innovativo e popolare, sperimentale e di consumo allo stesso tempo, riflesso in un costume musicale che vedeva gli autori avanguardisti come Morricone al lavoro su musica sperimentale, colonne sonore e canzoni di musica leggera (qui lo troviamo in almeno due vesti).
Con tutte le reciproche influenze del caso, nella fusione alchemica fra chitarre riverberate e archi, batterie e timpani da orchestra che tanto aveva incantato Patton nel suo soggiorno bolognese, dandogli l’idea del progetto italiano. Un linguaggio comune che gli arrangiamenti di Mondo Cane enfatizzano e spingono più in là con un sound incisivo, che pure rimane sempre in equilibrio fra la fedeltà filologica e gli interventi inediti di effettistica, rumorismo, assoli jazzati, scream, perfettamente integrati con il materiale originale come il theremin magico di Vasi.
Altro sottotesto costante nella musica italiana dell’epoca è il rapporto con gli USA, un cortocircuito in cui la rivoluzione beat e pop tricolore guardava alle innovazioni d’oltreoceano, ma che ha visto gli Stati Uniti innamorarsi a loro volta della via italiana all’immaginario musicale e cinematografico a stelle e strisce, dal successo degli spaghetti western al fanatismo di registi come Tarantino per il cinema italiano, passando per il fondamentale impatto di Morricone sulla musica rock e psichedelica anni ‘60, per arrivare anche a progetti come Mondo Cane. Patton in persona personifica queste dualità e i loro intrecci: quella fra avanguardia e pop, con lui, vocalist rock e sperimentatore vocale, che si lancia appassionatamente a cantare le melodie sentimentali del Belpaese e contemporaneamente ne porta al limite ed esalta gli elementi più azzardati e innovativi con scream, distorsioni, rumorismo, osando ma sempre nel solco dell’originale (il caso esemplare è ‘Urlo negro’); del resto, nelle canzoni selezionate c’è tutta la varietà canora del cosmo italico, ed estremizzandola il californiano ha l’occasione di mettere in mostra tutte le sue facce, uno showcase di tecniche canore e interpretazioni che ricorda, e non è banale considerando la diversità di contesto, quello di dischi come ‘Angel Dust’ o ‘Disco volante’.
Mike Patton rappresenta bene anche quel rapporto complesso USA e Italia, con un amore mai nascosto per Morricone e la scuola delle colonne sonore italiane, già dai tempi di Mr.Bungle e Fantomas, che diventa prima fascinazione, poi studio e interpretazione del nostro canzoniere più ‘esterofilo’, riscuotendo successo in tutto il continente americano. Un fascino reciproco e un po’ esotizzante che incanta tanto gli americani, con la loro visione romanticizzata dello Stivale, tanto il pubblico italiano, che è già cascato, da ‘Come Back to Sorrento’ di Dean Martin in poi, nelle braccia dell’americano cool che viene da oltreoceano per masticare goffamente la melodiosa lingua di Dante. ‘Chella s’è ‘nnammurata ‘e nu pittore / Ca pitta Capre e parla furastiero’, si lamenta Murolo in Scalinatella e lo capiamo bene, ma noi di questo forestiero che pitta Capri con la voce ci siamo innamorati già dieci anni fa, e a Prato la scintilla è scoccata di nuovo.
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autore: Sergio Sciambra