Una location da brivido (la vista dall’alto della Fortezza Albornoz, nel cui cortile si tengono i concerti è letteralmente mozzafiato), un’atmosfera rilassata e piacevole, un cast di tutto livello: con questi elementi non poteva che venir fuori un festival da ricordare, questo nono appuntamento con Frequenze Disturbate. Il 5 Agosto ci accolgono nella fortezza i One Dimensional Man. Suoni taglienti e la solita tensione. Ma li abbiamo visti in forma migliore, e il pubblico è ancora scarso e un po’ spaesato, per poter accogliere col dovuto calore la band. Risultano più convincenti i
Jennifer Gentle: frizzanti e psichedelici al punto giusto, divertono con le canzoni più tirate, e trascinano gli spettatori in piacevoli viaggi sonori con i momenti più dilatati e lisergici. Promossi a pieni voti.
I Raveonettes, di cui si parla tanto ultimamente, continuano a non convincermi a pieno. Il loro è un concerto piacevole ma incostante: uno spettacolo fatto di alti e bassi, in cui – a nostro avviso – riescono molto meglio i pezzi più tirati (come la cavalcata sonica nel finale) che le sbiadite ballad pop-rock dal sapore retrò che tanti piacciono al gruppo danese.
La prima giornata di festival entra nel vivo con la performance alquanto grottesca di Julian Cope, autorevole icona al tramonto della scena del pop inglese. Consumato dagli eccessi di una vita infarcita di un intellettualismo anglosassone di maniera, nonché di un abbondante uso di droghe, Mr.Cope si presenta da bravo dirigente di un glam rock rimasticato e farnetica a proposito di argomenti fra i più disparati. Il pezzo d’apertura si chiama “Orgasm” ed è un’elaborazione del momento, estrapolato da un fantomatico album intitolato “Dope”. Concede a noialtri presenti informazioni segrete: è un marziano arrivato sulla terra con l’intento di studiare la storia di antichi monaci, custodi del segreto del rock, sepolti nel Duomo di Urbino. Gridolini e masturbazioni dialettiche sono di strumento alla sua provocazione, comunque apprezzata. Il suo chitarrista completa la scena e mostra di supportarlo in ogni momento, anche quando Julian conclude le sue sperimentazioni piegando l’asta del microfono con cui s’infliggerà una ferita su quel corpo che lui stesso dichiara essere pulito da ogni tatuaggio. L’effetto di lasciare un ricordo l’ha sortito, é per simpatia é per impronta scenica, ma quello non era certo il Julian Cope degli anni d’oro.
Tocca quindi ai redivivi Dinosaur Jr, una delle principali attrazioni del festival, chiudere la prima serata del festival. Si capisce subito, purtroppo, che la reunion non ha ricucito affatto il rapporto tra le due menti della band, J Mascis e Lou Barlow. I due non si scambiano neanche un’occhiata per tutto il concerto. Non è decisamente una “band affiatata”, quella che vediamo sul palco.
Il concerto parte un po’ in sordina, per poi decollare definitivamente con la splendida “Little furry things”. I volumi sono micidiali: la chitarra di Mascis, in particolare, ha un impatto devastante sui nostri poveri timpani. I suoi quattro amplificatori (!) riversano sul pubblico un wall of sound impenetrabile. La scaletta pesca esclusivamente dai primi tre dischi: “Dinosaur”, il bellissimo “You’re living all over me” (proposto quasi per intero!) e “Bug”. Ed è questo a nostro avviso l’aspetto più controverso di questa reunion. Barlow si rifiuta di suonare pezzi tratti dai dischi usciti a nome Dinosaur Jr dopo la sua ripartita (tra cui autentici capolavori, come “Green Mind” e “Where you been”), e quindi ci si ritrova ad ascoltare i tre suonare brani che risalgono a quasi 20 anni fa, in cui non vediamo quanto possono sentirsi rappresentati. Ovvio che molti di quei pezzi stupiscono ancora oggi per la freschezza, per la straordinaria forza melodica e sonica, ma la sensazione, alla fine, è quella di trovarsi dinnanzi ad un malinconico juke box.
Il secondo giorno di festival (6 agosto) inizia con la pessima notizia che si apprende all’ingresso: la tanto attesa partecipazione di Daniel Johnston è stata annullata, perché “stava troppo male”. Il programma subisce quindi delle variazioni: sul palco della fortezza si esibiscono i Midwest (che avrebbero dovuto suonare nel pomeriggio nel palco secondario, in Piazza Duca Federico), che regalano gradevoli vibrazioni alt-folk. I Kech, invece, non convincono, con il loro indie-rock scialbo e prevedibile. In ogni caso suonano con passione e grinta, riuscendo a tenere il palco discretamente. Molto divertenti, a seguire, gli scozzesi Sons And Daughters, con la loro bizzarra miscela di rock-wave-folk-country un po’ ripetitiva ma godibilissima. Peccato che nessuno balla come sarebbe lecito aspettarsi ad un concerto del genere. Sarà che il freddo di Urbino (si sa, “agosto è il mese più freddo dell’anno”…) ha congelato le gambe a molti dei presenti? O semplicemente i kids sotto al palco hanno paura di perdersi le spillette, ed evitano perciò di dimenarsi? Mah!
Tutt’altro mood si respira col concerto dei Sophia. Robin Proper-Sheppard decide di iniziare con “I Left You”, ma dopo tre tentativi abortiti dopo la prima strofa, decide di passare avanti (“I can’t play it!”), senza chiarirne i motivi. Il concerto è stuggente, lentissimo e sofferto. Sheppard si fa accompagnare da una discreta sezione ritmica (batteria e contrabbasso) e da un quartetto d’archi. Si concede anche una piccola parentesi completamente acustica, durante la quale si cimenta in una “Oh my love” per la prima volta suonata col solo accompagnamento della chitarra acustica (ma diciamolo: l’arrangiamento nel disco era ben più emozionante). Momento da ricordare: ad un certo punto salta la corrente, e la band, chiedendo al pubblico di fare un po’ di silenzio, dedica un pezzo alle prime file, suonato senza alcuna amplificazione.
Poco dopo l’immagine di una raffinata strafottenza prende corpo attraverso le anime sempreverdi di Ian McCulloch, Will Sergeant e Les Puttinson, in arte Echo & the Bunnymen. Una luce soffusa ma vivida evidenzia il carattere di Ian, il tempo per nulla gli ha scalfito la voce, bensì le ha dato potere. Si concede la prima di una serie infinita di sigarette, ed inizia con “Lips like sugar”. L’equilibrio estatico dell’atmosfera tiene in piedi le note di “Rodehouse blues” dei Doors e si insinua attraverso le parole di “Take a walk on the wild side” per poi giungere nell’universo di “Killing Moon” reso noto dalla colonna sonora di Donnie Darko. Il concerto, ahimè, si conclude, dopo aver suggellato un patto di fedeltà tra il personaggio musicale e il progetto che “echo” ha significato in vent’anni di carriera.
Il 7 agosto, ultimo giorno di festival, è funestato dalla pioggia. Il palco viene ribassato sulle teste dei musicisti, e le casse coperte da dei teloni (non senza conseguenze per la resa acustica). Robert Lippok e Barbara Morgenstern, cui tocca l’apertura per i pochi “coraggiosi” (come li definisce la Morgenstern) assiepati sotto al palco o riparati sotto gli stand, non sembrano curarsi più di tanto degli inevitabili disagi, e ci accarezzano con le loro delicatezze glitch-pop. Ancora sonorità elettroniche con il laptop-set di Four Tet. Basi hip hop disturbate, impenetrabili stratificazioni di rumori e stridori, beat che prendono corpo a poco a poco. Peccato che il live si chiuda proprio nel momento di massimo coinvolgimento del pubblico, che stava iniziando persino a ballare (wow!).
I Blonde Redhead suonano nel pieno del diluvio universale. La pioggia, spinta dal vento, arriva anche sul palco, davanti al quale si distende una selva di ombrelli. Il sound del gruppo è impeccabile e curatissimo, dall’impatto assicurato. Peccato che ancora una volta si rivelino una band un po’ “fredda”, sul palco. In ogni caso: ottimo concerto, e una memorabile, ipnotica e sexy versione di “In particular”.
Ma la miglior soluzione per questa plumbea, bizzarra domenica di agosto si chiama Yo La Tengo. James McNew, Ira Kaplan e, teutonica consorte, Georgia Hubey concludono felicemente il festival di Urbino giungendo come paladini del bel tempo! La pioggia concede una pausa durante il loro concerto. E loro concedono al pubblico un profondo respiro. Sembrano voler stimolare la concentrazione iniziando dolcemente con le melodie di “Tears are in your eyes”, magistralmente interpetrata dalla voce sottile e remissiva della Hubley, la cui parte ritmica a malapena si percepisce. Il personale ricordo dei brani da loro eseguiti non va di pari passo con l’ordine della stessa esecuzione, ma posso dire che il seme benevolo di “Little eyes” e “Today is the day” è giunto a me con la stessa folata di vento che ha rischiarato il cielo. Al solito, l’equilibrio degli Yo la tengo risiede in una placida unione e nel senso di intercambiabilità e di agevolezza espressiva che li accomuna, sempre tesi all’autoironia. Buffa e gradevole risulta la performance (un po’ rigida Georgia, ma non per questo meno divertente) corografica durante “Nothing But You And Me”.
Altro punto di riferimento del gruppo, il surf rock degli anni ’60, si ripropone in “Little honda” dei Beach Boys, dove l’anima rocker di Ira si scatena in movenze convulse e in una serie di conturbanti riff chitarristici.
Perfetto l’omaggio a Daniel Johnston, di cui si è sentita non poco la mancanza, con “Speeding motocycle”. Infine il dialogo iniziale col pubblico, durante il quale il portavoce Ira si chiedeva il perché di tanta distanza “disposta” tra palco e transenne, si concluderà con la giocosa passeggiata dei tre fra i presenti dopo la proposta di una catarsi attraverso l’ipnotica “Nuclear war” di Sun ra. Un magma sonoro di psichedelia e ridondanti ripetizioni ritmiche che sfumano lentamente fino a concludere il gioco. Senza ombra di dubbio il miglior concerto in assoluto di Frequenze Disturbate 2005.
Autore: Daniele Lama e Lorenza Ercolino foto di_ Vincenzo de Gennaro
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