Il “day after” porta con se’ l’apertura, oltre che dell’immenso main stage, anche dell’area del Mercat dels Flors. Ed e’ qui che inizia alle 16 il nostro “servizio”, incuriositi dal dream pop dei britannici Tex La Homa che tanto ci erano piaciuti su disco. Il teatro coperto del Mac fa la sua parte nel creare atmosfere notturne consone al loro sound, ma resta poco altro. Piu’ adrenalina fuori, nel piccolo palco Feria, con Las Perras del Infierno e il loro bitch-punk sguaiato e disinibito. A seguire gli attesi Veracruz, la cui new-new-wave di nuova generazione mostra, per ora, i segni di un miglioramento che non dovrebbe tardare a giungere. Un po’ meno “easy” e il gioco sara’ fatto.
Applausi calorosi per i Berg Sans Nipple, duo francese che ha abilmente dimostrato di sapere il fatto suo nell’attraversare gli insidiosi terreni di confine tra elettronica, post-rock e krautica ambient.
Si torna al Poble con gli Swell e il loro rock intenso e affascinante. Meriterebbero tutta la nostra attenzione, ma “ubi maior minor cessat”, dove il maior sono i Franz Ferdinand, forse un po’ sopravvalutati per essere, in fondo, abbastanza di seconda mano. Eppero’ e’ difficile negare di aver goduto di un ottimo show. Gig perfetta, senza sbavature ne’ colpi di scena. L’archetipo della band in rapida ascesa, che si concede con la giusta parsimonia. L’orizzonte notturno dei Pixies ci dirotta sui palchi minori, non senza aver dato un assaggio alle gig “intermedie”: piuttosto imbolsiti i cari vecchi Mudhoney, suggestivi invece i Wilco, anche se in scarsa compatibilita’ col feeling che l’attesa stava facendo crescere.
La spola, tra le 22 e le 2, la si fara’ tra Rockdelux e Nasti. Ed ecco, in rapida (tanto quanto la nostra presenza) carrellata: il redivivo Lloyd Cole, che solo e con chitarra fuga presto la speranza di riascoltare materiale dei Commotions; i Sun Kill Moon e il loro intimo e struggente lirismo; il de profundis emozionale di Casiotone for the Painfully Alone; i Russian Futurists – ovvero: il sonno della ragione genera… tastiere; quattro giocatori di scacchi che, lo dico, ci prendono per il culo; un altro redivivo, l’irresistibile e scalmanata maschera cinematografica anni 50 di James Chance (e i suoi Contortions), sorta di Jerry Lee Lewis senza piano o Fred Buscaglione senza baffi e con sax proiettato nelle dissonanze no-wave della Big Apple di un quarto di secolo fa – tanto carismatico quanto teatralmente sfigato; il perentorio, elettrico ma tendenzialmente immutabile punk dei Fall (che colpo, pero’, quel Mark E. Smith ancora su un palco con quell’aria da inquilino fisso di pub).
E infine, il vero evento di questi tre giorni. Come si fa a non essere enfatici, fors’anche retorici, quando c’e’ una folla da stadio (oltre 15mila presenti in totale delirio) ad accogliere coloro che, riconosciuti in ritardo dalla storia, hanno gettato le piu’ solide basi del rock alternativo dei 90? Eccoli, di nuovo insieme, i Pixies. Invecchiati, ma forse come il buon vino. Ingrassati, ok, ma non nel sound, nell’energia, nel fomentare la giusta adrenalina. Per 20 metri non c’e’ spazio per uno spillo, si salta, si poga ma non c’e’ rischio di cascare nella polvere del Nitsa. 90 minuti per uno dei piu’ grandi set a cui si possa assistere, quei pezzi, maledettamente carichi e catchy gia’ su disco, che si materializzano, come per magia, qui, adesso. Un best of dal vivo, incontenibile, indescrivibile.
Sacrifici? Con un cartellone cosi’ erano immancabili: Electralane e Prefuse 73 (in contemporanea ai Pixies), Scissor Sisters e Kid 606 (per sfinimento). Il colpo di grazia, ma senza ballare, arriva con le martellate techno di Luke Slater e David Holmes alla consolle. Tutti a nanna, senza fiatare.
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