L’esordio discografico di Julette Lewis arriva col suo bel gruppo di contorno, a nome the Licks, sulla falsariga dei grandi accostamenti del passato, modello Patti Smith o Iggy Pop: nessuna irriverenza, ha spiegato la stessa Juliette, solo un modo per dare la giusta idea della sua concezione del rock’n roll: se la prima apparizione italiana al concertone romano del primo maggio ha diviso nettamente gli acuti smascheratori di bluff dagli adoranti adepti, su disco il messaggio è molto chiaro. “You’re speaking my language”, brano omonimo chiarificatore, stabilisce le coordinate: chiara attitudine punk, con riferimenti alla scena rock dei ‘90, interpretazioni viscerali, voce tirata e inconfondibile, con la spontanea curiosità per l’impatto su palco.
La definizione apparentemente semplicistica di questo lavoro non deve trarre in inganno: sembra infatti più che naturale il passaggio dal set al palco per la femmina in questione, con precedenti iconografici già sparpagliati nella storia cinematografica della Lewis in tempi non sospetti.
Non si tratta di una sorpresa: vista la presenza scenica, la foga e l’estetica punk-maudit che impressionò in modo diretto e rock lo guardo dello spettatore nelle sequenze post industriali di “Strange days” dove la nostra interpretava, dandole sangue e pupille, “hardly wait” della uterina vestale ispiratrice P.J.Harvey. Le canzoni? Dall’introduzione omonima che stabilisce il registro, all’invettiva dedicata al soldatino americano “American boy”, col sentito crescendo “I never got to tell you what I wanted to”, colma di raffiche di chitarre a scandire il valico dell’emotività, si arriva al vento estivo delle Hole versione “Celebrity skin” nella californiana “Seventh sign”. Le canzoni sono come messaggi, bigliettini personali in ricordo, pensiero o raccordo. Affiorano tra le riga gustosi echi di anni ‘80, quelli più wave, dove le batterie assumono anime dance: “pray for the band latoya” e il remix di “Got love to kill” lasciano immaginare fisicità disegnate da un tiro ritmico riuscito e coinvolgente. Le ballad? Ma certo, riflessive e dipinte di sadness: una su tutte, la conclusiva “Long road out of here”. Il richiamo del corpo ha il suo altare sul palcoscenico di Juliette, aggressiva, sudata e capace di mostrare l’intimo: quello dell’anima, ovvio, ma non solo.
Autore: Alfonso Tramontano Guerritore