di Martin Scorsese, con George Harrison, Paul McCartney, Ringo Starr, John Lennon
Provate a chiedere in giro qualcosa a proposito di George Harrison, la maggior parte delle persone risponderà più o meno sempre le stesse cose: che è stato il chitarrista dei Beatles e che ha scritto “Here Comes The Sun”, “Something” e “My Guitar Gently Weeps”. Harrison era un lato di quel quadrato perfetto che furono i Fab Four, era chiaro però che non avesse il carisma di Lennon, né il seguito di McCartney, eppure di quella rock band straordinaria rappresentava la parte più profonda, la vera essenza. A metà anni Sessanta, all’apice del successo, quel Beatle così apprezzato dai suoi contemporanei avvertì la mancanza di qualcosa che si concretizzò in una ricerca estenuante della verità del mondo. Da quel momento, fino alla fine dei sui giorni, George intraprese un cammino meditativo che lo condusse ad abbracciare la spiritualità indiana come pratica quotidiana, un percorso di vita che ben presto diventò una direzione artistica i cui influssi musicali sono tangibili già nella tarda discografia dei Fab Four.
Prodotto dalla seconda moglie, Olivia Harrison (autrice tra l’altro del libro da cui è tratto lo spunto della narrazione) George Harrison: Living in the Material World è un’opera cinematografica il cui valore sta nel mostrare per la prima volta al grande pubblico il significato più autentico della musica di Harrison, anima dei Beatles, compositore unico nel suo genere, artista sensibile, icona carismatica, protagonista indiscusso della rivoluzione culturale del mondo occidentale la cui vita fu espressione dello spirito di un’epoca. Scorsese ripercorre in parallelo la vita dell’uomo e del musicista, da quando, a 17 anni, fece esperienza di una popolarità senza precedenti, passando per la creazione e la consacrazione del mito della band, fino al sofferto ma inevitabile scioglimento, alla costruzione della carriera da solista e alle ultime grandi collaborazioni, tra cui un’incursione proprio nel mondo del cinema come produttore dei Monty Python.
E’ il ritratto di un uomo dalla personalità magnetica quello che fin da subito emerge dalle interviste fatte alle due mogli di George, al figlio Dhani, agli amici di sempre, Clapton, Yoko Ono, Terry Gilliam, Phil Spector, tutti partecipi del medesimo ricordo, tenero e nostalgico al tempo stesso. Harrison nella sua duplice essenza, quella di un uomo perennemente diviso tra la ricerca di Dio e l’amore per le donne e le cose del mondo, una distonia che nelle parole dell’artista si traduceva come la differenza tra lo stare al mondo e l’essere parte del mondo. L’analisi della figura di Harrison dimostra -se ancora ce ne fosse bisogno- che la grandezza dei Beatles stava nell’eccezionalità di ogni singolo elemento e Scorsese propone allo spettatore un’immagine insolita del chitarrista, non solo un innovatore e un genio rivoluzionario, ma un uomo davvero eccezionale, divertente, colmo di sentimento, che nascondeva dietro quegli occhi scuri, quasi severi, un intero universo contro cui ha combattuto con la sua musica straordinaria, frutto di un’ incessante ricerca personale che nei suoi accordi si caricava di un significato universale.
Con questo materiale a disposizione a Scorsese (che in ambito musicale ha già diretto “Shine a Light” sugli Stones e “No Direction Home” sulla vita di Bob Dylan), non resta da fare granché, se non la costruzione fluida ed elegante di foto, registrazioni, interviste e materiali di repertorio -molti dei quali inediti- che incollano lo spettatore alla poltrona per oltre duecento minuti. Un film che suona come una dedica, un tributo al grande chitarrista di Liverpool che ha impresso un marchio indelebile alla musica del XX secolo di cui ancora oggi si riconosce l’inestimabile valore.
Autore: Vittoria Romagnuolo