Ghiotta occasione questa sera al recuperato Teatro Instabile di Napoli per gli amanti di ‘certo indie’. Approdano, infatti, all’ombra del Vesuvio quegli Early Day Miners che, insieme a June Panic e al ‘solito’ Jason Molina, rappresentano il meglio della mai troppo lodata label Secrelty Canadian from Bloomington, Indiana.
Il pubblico c’è, l’atmosfera pure : si comincia. Ad aprire le danze (si fa per dire) ci pensa l’Illachime Quartet (Illachime come ‘ in lacrime, ma non proprio’ precisa il leader Fabrizio Elvetico), combo partenopeo chitarra/batteria/keyboards/viola che presenta un set di venti minuti circa sospeso tra fluttuazioni a-la Godspeed You Black Emperor! e una sorta di folk alieno decisamente cupo che mi ricorda a tratti i For Carnation. Band molto interessante da riascoltare in altra occasione più diffusamente.
Arriva quindi il momento dei quattro del midwest capitanati da Daniel Burton, forti dell’ultimo Jefferson At Rest, terzo e robusto episodio sulla lunga distanza.
Tra il pubblico c’è chi li conosce già e chi no, o chi ne ha sentito parlare come seguaci di Red House Painters o dei Low. La curiosità sale e anche io sono ansioso di vedere all’opera una delle realtà indie a stelle strisce più convincenti e credibili di questo momento.
E le attese non vengono tradite : si parte col botto sulle note di quello che forse è il loro pezzo più suggestivo: ‘Centralia’, opening track del precedente ‘Let Us Garlands Bring’ ad oggi il loro album migliore. Pelle d’oca e applausi a scena aperta.
Si susseguono,poi, brani attinti prevalentemente dai due succitati lavori più un paio di inediti che andranno a riempire le tracce del prossimo album in uscita a settembre. In generale, il loro approccio live è marcatamente ‘plugged’, considerando anche l’assenza di alcuni sovra-arrangiamenti caratteristici del recording da studio nonché di strumenti aggiuntivi (niente pianoforte, niente archi). In questo contesto, risalta su tutto il talento e la tecnica del chitarrista Joe Brumley, che alterna arpeggi e frasi di raro gusto a passaggi noise e matematici che ci ricordano la ‘seconda identità’ nonché l’origine dei nostri : gli Ativin.
Comunque sia, due momenti si fanno segnalare in modo particolare : l’intensità di ‘Jefferson’ e della sua magica melodia e, soprattutto, il memorabile finale affidato a ‘Offshore’ , in cui le conclusive esplosioni elettriche convincono anche chi alle ‘lentezze d’autore’ non troppo è avvezzo. Fenomeni.
Personalmente spero che vadano avanti ancora un po’ per deliziarci magari con ‘Placer Found’ o la monumentale ‘Berlin at Night’ dal loro primo disco. Niente da fare. Siamo ai saluti.Tanti applausi e folla allo stand ‘euri’ alla mano per comprare cd.
Tutto perfetto? Quasi, perché una nota stonata c’è. Parlo della durata del concerto. Tutto quello che vi ho raccontato, infatti, è racchiuso in un’ora scarsa di show. Questo conferma, ahinoi ,i il malcostume abbastanza diffuso tra alcune band straniere di risparmiarsi oltremodo dalle ‘fatiche’ del palco. Forse in questi casi chi organizza eventi dovrebbe ‘spingere’ un po’ di più affinché ci sia piena soddisfazione da entrambe le parti.
Autore: Giulio Pescatori