“Dying Time” segue a due anni di distanza “Afraid to Dance” e si coglie l’occasione per fare osservazioni e per ricordare che c’è una buona scena elettronica in Italia, che purtroppo resta isolata data la pessima integrazione tra un po’ tutti i reparti che poco supportano questo comparto, certamente in crisi di produttività ma soprattutto conseguente a un mutamento improvviso di ascolti se non altro perché in sostanza quella elettronica è musica d’approfondimento e questo non sembra assolutamente il periodo storico adatto all’analisi.
Fermo restando il buon successo di alcuni dj/producer anche in giro per il globo sempre pronti a scagliare martelli “nu-rave” o minimal (ovvero dubstep da qualche settimana), al momento ci sono dei vuoti da colmare che in parte sono ottemperati dalle piccole net-labels che poco alla volta reclutano anche qualche nome di prestigio, ma lasciano ad album come “Dying time” il duro e incombente compito di fare d’ariete per inserirsi in determinate condizioni e strappare un po’ del pubblico indie, magari quello più interessato o incuriosito. Tant’è che “Dying Time” nasce direttamente da una prospettiva post-rock da cui graduali accelerazioni seguenti a paesaggi più o meno meditativi spaccati in due da tempeste elettroniche, supportati da lunghissimi pad che spesso s’intrecciano nei groove quando presenti. Nonostante questo disco subisca fortemente l’esame di cui sopra, i Port-Royal hanno condotto un buon lavoro durato circa tre anni a metà strada tra l’ambient e un dream-pop che non riesce a diventare né dance né fortunatamente IDM.
Intanto le tracce non seguono una direzione certa mentre l’ossatura complessiva è piuttosto rigida e ricorrente, manifestando comunque una certa lungimiranza di vedute avversa alle mode e il coraggio nel porsi a questo punto al panorama internazionale, data l’adeguatezza di un sound, direttamente dovuto al fatto che le band italiane hanno somatizzato il bubbone indie-planetario, lo riproducono alla perfezione, purtroppo non riescono attualmente farlo proprio al fine di creare scena o un filone. La solita contraddizione all’italiana è data dal fatto che, a dispetto di un minore interesse, è la musica elettronica di album come questo di Attilio Bruzzone & C. a superare i confini nazionali. Certamente per una questione di universalità dei suoni, ma più di ogni altra cosa, nello Stivale abbiamo difficoltà a valorizzare le diversità o magari perché, tra perenne vittimismo cosmico e una buona dose di superstiziosa o scettica negatività non riusciamo ad accorgerci, in generale, che queste sono dinamiche che hanno bisogno del massimo supporto. Ci perdonino i Port-Royal se anziché parlare dei loro synth, beats e meritevoli titoli dei brani si è divagato, ma la band genovese è stata utile anche per offrire uno stuzzicante spunto di riflessione o punto di vista.
Autore: Luigi Ferrara