Diciamolo subito: “Pockets” non segna nessuna svolta sostanziale, nell’ormai decennale carriera dei Karate. I fan della prima ora che si sono sentiti “traditi” dal progressivo “ammorbidirsi” del sound della band non riascolteranno neanche questa volta i Karate di “In place of real insight”. E sarebbe meglio che in tal senso si mettessero l’anima in pace (se non l’hanno già fatto).
Quelli che invece hanno apprezzato la “maturazione” sfociata in “Some boots”, troveranno in “Pockets” un suo degno successore.
Ascolti per la prima volta l’opening-track, “With age”, e ti convinci subito: è un pezzo che non aspetta altro che essere suonato dal vivo, per aggiudicarsi un posto tra i “classici” della band di Boston, una di quelle canzoni che al primo accordo scatenano applausi e urla…
Gli “stop and go” nella struttura del pezzo non sono più quelli mozza-fiato di una volta – d’altronde questo s’era capito ormai da anni, ed è inutile ripetersi – ma è talmente “vivo” e vibrante, il suono della band, che non puoi fare a meno di tenere perlomeno il tempo col piede. Il groove è pastoso, la chitarra limpida come sempre…puro calore analogico. La voce di Geoff Farina è indiscutibilmente splendida, così come le melodie che con disinvoltura cuce addosso alla base sonora…
Sulla stessa scia si muove la bellissima “The state I’m in…”: basso pulsante e accordi secchi di chitarra, e “Tow truck”, dall’incedere quasi funk, capolavoro di equilibrio tra impatto sonoro e appeal melodico.
“Water” si dondola tra dolci fraseggi jazzy, fino all’emozionante – seppur “contenuto” – crescendo finale. In “Cacophony” e in “Concrete” la band è affiancata dalla seconda chitarra di Chris Brokaw: la prima è una di quelle ballate che ti aspetti di sentire alla fine di un film straziante, ed è forse fin troppo carica di pathos e drammaticità; la seconda è un lungo flusso scandito da lenti, struggenti affondi di chitarra. “Pines” rivela il lato più intimista del songwriting di Farina, e il suo fine ricamare con le sei corde atmosfere sognanti, sospese, ineffabili.
Nonostante tutte le critiche che anche questo disco attirerà su di sé (maturità o senilità precoce? Introspezione o definitivo assopimento creativo?), è un dato inconfutabile che i Karate hanno fatto ormai del loro sound un marchio di fabbrica, riconoscibile al primo ascolto. E non è un particolare di poco conto, in un epoca in cui le band sembrano riprodotte in serie, con lo stampino.
I Karate sono una di quelle band che dividono gli ascoltatori in due categorie: quelli che li adorano, e quelli che li ritengono insopportabili. “Pockets”, personalmente, non ha fatto altro che rinsaldare la mia posizione nella prima categoria…
Autore: Daniele Lama