Quando James Blake, dopo alcuni EP all’attivo, pubblicò il suo primo disco compiuto, l’omonimo del 2011, segnò un’epoca, incarnando, in modo quasi eucaristico, nell’elettronica contemporanea il cantautorato di alta scuola.
Brani come “Unluck”, “Limit to Your Love” (di Feist), “I Never Learnt to Share”… erano destinati a restare nella storia, pietre d’angolo sulle quali costruire una splendida moderna cattedrale dei nostri giorni.
Che non fosse possibile, nell’immediato, ripetersi a tali livelli con un analogo registro musicale, Blake lo aveva intuito e, saggiamente, ha virato leggermente la rotta, pubblicando i successivi altrettanto ottimi “Overgrown” (più etereo e sacrale), e il personale “songbook” “The Colour in Anything”.
Il “successo”, anche quando è più che meritato, può far perdere la rotta e la virata, da abile manovra, può portare alla deriva … deriva che Blake ha saputo gestire con fermezza, tenendo saldo il timone, dando alle stampe dischi comunque di spessore che hanno “arricchito” la sua discografia e la sua fama.
Si è arrivati poi al 2023, e il talento non può non essere accompagnato da lungimiranza e intelligenza, e così Blake, con rinnovata abilità, ha effettuato nuovamente un cambio di rotta, recuperando dalla propria cultura del passato un enciclopedico volume d’elettronica che ha utilizzato quale “fonte” per “Playing Robots Into Heaven” (Republic/Polydor), assestando un colpo da maestro e condensando Deconstructed Club, “Breakbeat”, Intelligent Dance Music … in un’opera omnia rivelandosi, rispetto a tanti suoi colleghi di genere, un figlio eletto del suo tempo dimostrando di essersi nutrito, di aver digerito e metabolizzato la sua contemporaneità.
Probabilmente “Playing Robots Into Heaven”, ad un primo ascolto, può sembrare “facile” e “commerciale”, soprattutto se paragonato ai citati suoi predecessori ma la sua forza è proprio nel non scontato equilibrio tra fruibilità e qualità, dote che quando racchiusa in un lavoro discografico è meritoria e di pregio.
Basterebbero i singoli che hanno anticipato l’uscita del disco a testimoniare il suo valore, partendo dall’incantevole e perfetta “Loading”, con il suo gioco di voci, ballata cibernetica da metropoli del futuro, passando per la “meccanica” e abrasiva “Tell Me” e il contaminato videogame retrò “Big Hammer” con i The Ragga Twins.
Con esse “Asking To Break”, “accomodante” e delicata, l’ipnotica, notturna e profonda “Fall Back”, le suggestive “I Want You to Know” e “Fire The Editor” (che nel cantato rievocano i fasti dello stesso Blake “d’autore”), l’intima e “acustica” “If You Can Hear Me”.
Chiude il disco il brano eponimo … viaggio nelle profonde malinconie razionali di Blake e forse ponte tra il suo passato e le future intenzioni; se questo è il “paradiso” che Blake immagina, sia esso di musica o di gioco, sarà un luogo piacevole dove trascorrere l’eternità.
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