Premiato a Cannes per la migliore regia e apparso nelle sale italiane soltanto il 31 ottobre, “L’Età giovane” dei fratelli Jean Pierre e Luc Dardenne è già una pietra miliare. Un’opera importante, come poche, sottilmente brutale, nel suo essere così sublimemente pacata, protetta da una regia impercettibile, corazzata nel corpo del giovane Ahmed, interpretato da un sorprendente Idis Ben Addi.
In principio fu il titolo, “Le jeune Ahmed”, traslato per la versione italiana in un generico “L’età giovane”. Un tradimento operato dalla traduzione che è già una rivelazione, uno svelamento, non delle intenzioni dei due registi ma dello spettatore. O meglio, di colui (coloro) che ha deciso che no, il giovane Ahmed, non andava bene come titolo del film, che quel ragazzo doveva scomparire, che bisognava scaricare la storia di quel singolo, per farne un simbolo da dare in pasto alla collettività. Che era necessario sacrificare la didascalia, per farne pedagogia. Mai scelta fu più infelice e fuorviante.
Chissà cosa ne penserebbero i due fratelli belgi, Jean Pierre e Luc Dardenne, che raccontando la storia del tredicenne Ahmed e il suo incedere incerto lungo la sua personale “linea d’ombra” semplicemente, com’è nella loro consuetudine, hanno provato a tracciare un contorno intorno alla realtà, ad aprire uno squarcio, sollevare l’occhiello e sbirciare. Guardare dal buco della serratura come due monelli voyeur, senza mai spalleggiarsi, ma portando avanti quel loro inimitabile punto di vista che non riesce mai ad essere unico ma è sempre interrogante, dinamico, fremente pure se fermo, inerte, in una regia che ogni volta si fa impercettibile, di fronte ad una realtà che inesorabilmente scorre. Un panta rei osservato, ammirato dai due registi che in quest’ultima opera, l’Età giovane, premiato per la miglior regia durante l’ultima edizione del festival di Cannes, scorre lungo le ore e i giorni subiti, più che vissuti, da Ahmed. Un adolescente, un “in essere“, che nel Belgio ancora scioccato dal terrorismo e dai fatti di Bruxelles, in un’Europa che ha sentito traditi i valori di fratellanza, uguaglianza e libertà, si immola (viene immolato) a simbolo, a manuale di un radicalismo non adolescenziale quanto piuttosto di quello atroce, mortifero e mortale degli adulti.
Il radicalismo raccontato appare, però, appena un pretesto: un trompe-l’oeil, che serve a sviare lo spettatore meno avezzo, quello che non riesce ad accettare l’idea che quello che è sullo schermo non è un paradigma. In “L’età giovane” ad essere rappresentata è più che altro (ed esclusivamente) la storia di un ragazzo, di un adolescente, che ha scelto la propria strada. Una strada sbagliata, buona soltanto a portarlo all’allontanamento, all’annichilimento, alla “non vita”.
Una “non vita” forgiata dagli adulti e subita dai tanti giovani Ahmed, che sono ovunque, dietro agli schermi, davanti alle console, bombardati da un radicalismo che è intrinseco a questa società e che non ammette sfumature: “prendere e pagare”, il suo dogma. Il martirio, pretesto narrativo in un film che pretende (questo sì) di parlare esclusivamente all’Occidente, si rivela qui solo la versione orientale di un sacrificio che, inutile girarci intorno, già vede interi pezzi di collettività sull’altare.
E allora si fa altrettanto insensato insorgere dinnanzi all’ingiustificata e virginale reazione di Ahmed di fronte alla libera, ingenua sfrontatezza di Louise (interpretata da un’irresistibile Victoria Bluck). Ragazza che, insieme alle altre donne del film, la madre (Claire Bodson), la sorella Yasmin (Cyra Lassman) e l’insegnante Ines (Myriem Akheddiou) rappresentano il reale, possibile sovvertimento di una società che si serve del radicalismo, lo assoggetta, per farne strumento di conservazione. È attraverso di loro che i Dardenne aprono la loro breccia per sottrarre dalla linea d’ombra il cammino di Ahmed e metterlo di fronte “all’infinito possibile”.
Così con L’età Giovane, i Dardenne danno vita ad una pietra miliare, un capolavoro assoluto nella loro cinematografia, – dove il loro “frères touch” si irradia in tutta la potenza espressiva che lo caratterizza -, e in quella occidentale, affrontando un tema, il radicalismo, per parlare di altro e cioè del peso sopportato dalle giovani generazioni di una società avvinghiata su sè stessa. Un onere magistralmente rappesentato dalla rivelazione Idis Ben Addi.
Un po’ di trama: Ahmed è un ragazzino di tredici anni, vive in Belgio, non sappiamo bene dove, non ha un padre e ha perso un cugino, martire della Jihad. La sua è una famiglia affollata, la madre fa quel che può e ogni tanto si consola con un “goccetto”. La sorella Yasmin preferisce il ragazzo. Il fratello maggiore Rachid (Amine Hamidou) lo porta da Youssouf (Othmane Moumen) un “Imam- bottegaio”, – ha un supermercato -, che riempie la mente di Ahmed di sure, esattamente come fa con i suoi scaffali e la merce. Ahmed però non è uno scafffale, un essere inerte. Prende perchè vuole prendere e se non lo fa, semplicemente è perchè non vuole.
Vuole, però, ammazzare la sua insegnante. Un’apostata, dice, che ha pure un fidanzato ebreo e che vuole fare un corso di arabo, come dire moderno, che cioè non insegna solo le parole scritte nel Corano. Apriti cielo! Questo è un motivo buono per innescare la sua personalissima Jihad, che però non è contro l’insegnante Ines, nè contro la società e quello che lo attornia, ma una guerra che il ragazzo ha abbracciato contro se stesso e di cui è l’unico solo e possibile martire. E no, come afferma ad un certo punto Louise, – che è un personaggio davvero meraviglioso -, nell’al di là non ci sarà alcun paradiso ad aspettarlo.