Il bamboccione che ha dato nuovo slancio all’immagine della Martini, si rivela ancora una volta una delle più fini menti di Hollywood.
Sempre in bilico tra impegno civile e blockbuster dagli incassi stellari, George Cloney, continua a fare centro, rivelandosi il più grande dei divi americani.
Presentato in concorso alla 64esima edizione del Festival di Venezia, Michael Clayton, “legal movie” à la Erin Brochovich diretto da Tony Gilroy, si rivela un film fluido, dall’intreccio lineare, privo di suspence e soprattutto, di grandi pretese.
Non è un gran film: non particolarmente emozionante, né “thrilling”.
Ma chi ha mai detto che bisogna per forza emozionarsi al cinema?
Michael Clayton, opera prima di Tony Gilroy (che vanta però una stimabile carriera da sceneggiatore di l’Avvocato del Diavolo, Rapimento e riscatto, Bait – L’esca, The Bourne Identity ecc), è una buona opera sartoriale, rifinita sapientemente, eppure gonfia di inutili lungaggini, tesa com’è a voler necessariamente spiegare tutto.
A volerlo trovare un difetto, non è nella regia, né nell’interpretazione di attori eccellenti (dal “mattatore Cloney, alle meravigliose interpretazioni di Arthur Edens e Sidney Pollack), né nella glacialità asfittica di Tilda Swinton, o nei dialoghi.
È la sceneggiatura che non va!
Perfettina, come quelle ragazzine borghesi vestite alla francese, con gli accessori tutti abbinati per benino ma completamente eteree, senza sostanza.
La trama a dire il vero, sa proprio di trito e ritrito: Michael Clayton è il solito “risolutore”, quello in grado di risolvere gli affari sporchi, solo, un po’ incompreso, relegato nelle quinte, quelle sociali quanto quelle societarie.
È uno senza scrupoli, pronto a vendersi al miglior offerente.
È uno squattrinato mago del bluff, pronto a fregare anche il più navigato dei giocatori.
Ma in fondo, come vuole ogni buon manufatto “made in America”, è uno buono, un eroe che difende i deboli e punisce i cattivi.
Con l’aiuto delle Forze dell’ordine, naturalmente.
Autore: Michela Aprea