Rimozione quasi forzata dagli scaffali di redazione per “Youth” vista la già discreta “stagionatura” dello stesso (il disco è uscito in tarda primavera). Eppure, nonostante anche una copertina non scevra da patine major (per un po’ lo avevo scambiato per uno dei tanti, inutili singoli editi dalla Mescal…), non ci andava di perderlo. Anche senza aver mai sentito parlare dei velvet Score, ultimamente è bene tenere d’occhio cosa bolle nella pentola della Black Candy, l’etichetta fiorentina che di recente aveva sancito il ritorno alle scene di un pezzo fondamentale del rock tricolore “minore” come Umberto Palazzo, e che non smette di ben promettere con le uscite, presto oggetto di “indagine”, a firma Pecksniff e Joe Leaman.
Intanto restituiamo a questo giovane quartetto lo spazio attribuitogli e, disco in play, anche tutt’altro che immeritato. Dovremmo solo aspettarci il disco dell’anno da Marco Giusti, Mattia Guglielmo & co. per stroncarli, ma ciò, come dovremmo aver imparato, non è qualcosa che si può chiedere a chi finalmente, in questo Paese (niente commiserazione!!), taglia il traguardo del primo album. Lasciamo perdere anche qualsiasi intransigenza sulla questione”originalità”: il tempo e una maggior “robustezza” artistica faranno il loro dovere nel far sì che i Velvet Score possano staccare la “flebo” mediante cui procacciarsi “nutrimento stilistico” da quei 2-3 nomi consolidati del panorama internazionale che a loro interessano.
Se partiamo dallo “zero” artistico, allora, vediamo che il quartetto toscano ha saputo lasciar parecchio spazio dietro di sé. Oltretutto “Youth” non è disco da mezz’ora-e-via, ma una più lunga e circostanziata “carta d’identità musicale” con cui poter risalire, anche solo con un ascolto – ma ve ne consiglio vivamente di ulteriori – all'”anagrafe sonora” cui i nostri siano iscritti. In questo senso, nei Velvet Score possiamo senza difficoltà individuare i lineamenti della guitar-band (due in line-up, più gli immancabili basso & batteria) intenta a “battere” quei terreni di medio-recente acquisizione al rock, cercando di omogeneizzarne i contenuti.
Ecco allora convergere in un flusso sonoro quasi univoco sia elettriche cascate di shoegazing primi anni 90, sia dei meno impetuosi rivoli dream pop, sia gli scatti più “nervosi” e gli spigoli indotti da geometrie post-rock – magari nella più carica e muscolosa variante “math”. Il tutto quasi mai lasciato orfano di vocals (che tengono al lavoro l’ugola sia di Marco che di Mattia), come se i Velvet Score intendessero sgombrare il campo da equivoci e affermare come il loro sound non debba rinunciare a nulla perché venga percepito come pienamente “compiuto”. “More is more”, per intendersi…
Autore: Roberto Villani