La prima volta che ho incontrato i Two Door Cinema Club è stata a Roma, per un concerto organizzato in apertura di una serata elettro-indie.
Era appena uscito il loro primo album , “Tourist History” e devo dire che il titolo descriveva benissimo l’impressione che i piccoli irlandesi mi avevano dato a prima vista: come tre turisti spaesati ed entusiasti si aggiravano per il locale con un drink tra le mani, esaltandosi per la gente, che a mano a mano andava accalcandosi a ridosso del palco. E si entusiasmarono pure quando uno della crew arrivò a dirgli che qualcuno aveva reso scaricabili illegalmente i loro pezzi sulla rete.
“Beh, non dovrebbe essere una cosa positiva, eppure… vuol dire che vogliono ascoltarti” mi disse Kevin (il nome scritto in stampatello sul basso).
Poi mi fece vedere che –in ogni caso- per essere politicamente corretto, aveva indossato la maglia della loro casa discografica, la francese Kitsunè.
Si trattava allora di un elettro pop attraente e allegro fatto di batterie al laptop e ritornelli accattivanti che ti entravano nella testa irrorandoti di un senso di coolness da far bene alla pelle. Però, a due anni di distanza, non mi sono mai chiesta (né ho mai sentito nessuno chiedersi) che fine avessero fatto quei tre.
Proprio quando cominciava a prendere piede l’ipotesi che fossero tornati nella loro Irlanda del Nord a mungere mucche e pelare patate, ecco che arrivano le prime notizie: anche loro approdati a Los Angeles sono finiti a registrare il nuovo album, Beacon, nello studio casalingo del signor Jacknife Lee (Bloc Patry, Rem, U2).
In undici tracce i Two Door Cinema Club dichiarano ufficialmente di essere una band dalle idee chiare e con un’identità propria: la vicinanza a Venice Beach e la facilità con cui avrebbero potuto imparare a fare surf non li ha trasformati in una garage band, al massimo gli ha regalato un suono più pieno e un equilibrio maggiore tra l’elettronica e il pop-rock dei primi duemila, con cui certamente sono cresciuti.
“Beacon” è un album che parla di un percorso. Qualsiasi traccia è perfetta per essere inserita in una playlist indie senza richiamare allo skip.
Hanno dichiarato di essere sempre più vicini al tipo di musica che hanno in mente di fare e ascoltare questo nuovo lavoro incoraggia sicuramente a scommettere su di loro, per andare a scoprire cos’è che gli gira per la testa.
Ah, un dettaglio: sono riusciti a tornare dalla California senza cedere alla tentazione di tatuarsi tutte le braccia o parte di esse (cfr. Alex Turner, Arctic Monkeys).
Autore: Olga Campofreda