Sarà l’inizio della funesta stagione dei monsoni che qui a Roma con il suo caldo e le sue piogge, in un anonimo giovedì sera di mezzo settembre, impedisce al pubblico di riversarsi all’INIT per l’esibizione di Keiji Haino, leader maximo di quella ‘non scena’ che per il momento ci limiteremo a definire ‘japponoise’ o è un’ esperienza dai forti sapori di wasabi e sangue a voler essere preventivamente scongiurata? Una persona mediamente interessata di musica e/o curiosa in generale, che non ha mai sentito prima Keiji Haino e decide di provarsi con il medesimo cercando video su Youtube esattamente come farete voi tra qualche minuto, deciderebbe poi di andare ad un suo concerto? Fate pervenire le risposte in redazione entro fine mese ed i primi cinque estratti vincono un viaggio in Giappone ‘all inclusive’ del – in piena emulazione di MTV – One Night With: ‘Keiji Haino’. In realtà ci sto girando intorno a questo report, e questo per due ragioni: la prima è ritardare il più possibile l’analisi tecnico-musicale di ciò a cui ho assistito; la seconda, che risponde anche ai perchè della prima, è una speranza di avvicinarsi il più possibile ad una verità ovviamente soggettiva di ciò che ho sentito, vista l’impossibilità di renderne una oggettiva dato che la materia con cui tocca cimentarsi è troppo piena e allo stesso tempo mancante di riferimenti nella (sub)cultura ‘rock e dintorni’ tristemente occidentale di cui generalmente ci occupiamo. Eppure il nostro amico ha collaborato con Zorn e Laswell tra i tanti, gente non proprio sconosciuta, ed è proprio grazie a quelle significative esperienze (Naked City, Painkiller) che i nostri canali percettivi si sono aperti su quelle musiche altre, sia jazz o avanguardia o rumorismo puro, laddove per noi il noise in quei primi anni novanta poteva al massimo significare Sonic Youth o Jesus and Mary Chain. Bene, onore al merito di averci fatto conoscere questi mutanti del Sol Levante come Yamatsuka Eye e i suoi Boredoms, i Merzbow, i Ruins, ma Haino è forse ancora un’altra cosa, soprattutto se lo si confronta con i nomi detti finora: impossibile assimilarlo. Uno sguardo veloce sul palco per capire che stasera tutte quelle delicate componenti che formano il nostro orecchio interno protesteranno vivacemente: quattro casse Fender ognuna delle quali corredata di microfono, tre microfoni per la voce (e fanno sette), sei pedali ed un tavolo coperto da un telo nero sul quale è impossibile vedere gli altri numerosi congegni elettronici di cui il nostro si avvale. E una chitarra elettrica. L’esibizione si divide in quattro lunghi movimenti o meglio, momenti, che riesco a distinguere nettamente (magari i movimenti erano solo uno o dieci). Il primo è di sola voce, anche se ‘sola’ è un eufemismo, poiche tre microfoni ed infiniti delays sparati nell’aria fanno ben più di ‘una sola voce’. Una specie di rigurgito al contrario (simil conàti?) è il biglietto da visita con cui si presenta Keiji Haino: la cosa più vicina ai suoni che può emettere un uomo durante una gastroscopia senza valium. Haino sta proprio vomitando un intero feto umano, e se la mente va ai più efferati growlers di professione di stampo brutal-grind, siete lontani assai perchè qui c’è una strana inspiegabile calma. Ogni microfono restituisce una voce diversa e spesso Haino, rigorosamente vestito di nero e con occhiali da sole (come e cosa vedrà nel buio dell’INIT supera le attuali conoscenze scientifiche), lunghissimi capelli lisci con frangettone (più nouvelle vague che Ramones) si accovaccia per terra per smanettare sui pedalini fin quando la voce comincia a girare al contrario, a duplicarsi, a sdoppiarsi, a contorcersi. Ammetto che appena cominciato, quella vocalità mi faceva ridere, trovavo un grande senso dell’humour ed un’ironia che pur non comprendendo appieno, sentivo esserci, nascosta in qualche anfratto della mente dello stregone sul palco (e della mia).
Dopo dieci minuti esatti di questa roba non ridevo più. Ma parte la drum-machine e lì avrei voluto chiedere a qualche fan della EBM, della industrial, della techno più intransigente o al primo fottuto gabber che passava se avesse mai sentito battiti così pieni, marziali e potenti. Non eccessivamente veloci però, così da assicurare l’effetto di ansia apocalittica. Poi alla scarna austerità di questo muscolo cardiaco elettronico si è aggiunto il drone. Un drone. Due drones. Tre drones. Una baraonda di drones. Questa si che è drone music!!, altro che SunnO))), altro che nuove bands di doom invaghite di musica cosmica. E’ qui che si agita Haino, sovrasta il tavolo nero, e si agita, alza le braccia al cielo invasato, come se ogni folata di suono, ogni scarica partisse dalle sue ascelle prima e raggiungendo la punta della dita colpisse poi le macchine. E’ un’immagine dal gusto horror-orientale ma anche un pò vintage, psichedelica. Non so per quanto sia rimasto aperto quel virulento vaso di Pandora, ho perso il senso del tempo. Vedevo solo occhi chiusi intorno a me e non so se per difendersi da quella tempesta sonica o se perchè era sopravvenuto uno stato di trance.
Per motivi neurologici mi sono allontanato dal palco, andandomi a sedere nella saletta antistante. Ci si sentiva più protetti e stabili e si vedeva comunque benissimo, ma, ahimè, il volume era lo stesso. Haino intanto ha imbracciato la chitarra e credetemi: la sequenza e gli accordi iniziali erano esattamente nel mio stile, e cioè un lento blues in Mi maggiore reiterato ad libitum con delle settime, none e dissonanze varie. Dopo pochi minuti ho però compreso la differenza tra il mio chitarrismo ed il suo. I suoi suoni erano metallici ma anni luce lontani dal metal e presto si sono trasformati in una campana di una cattedrale gotica durante un funerale. Dopo una decina di minuti (che è l’unità temporale standard di questo articolo), il tessuto di questo suono ha cominciato a lacerarsi lasciandone intravedere la trama, i fili che lo compongono, fatti di chiara luce, azzurra e verde, di riverberi ‘ambient’.
Come passare dalla violenza e crudeltà orientali alla più pacifica e narcotica quiete in pochi ma pesanti, pesantissimi passi. Stasera, più delle lezioni aeroportuali di Eno e a complemento di quelle monocromatiche di Aphex Twin so di aver fatte mie l’ambient e la drone music in una botta sola. Però ‘che botta’.
Il quarto ‘momento’ era una summa dei primi tre; la variante era il pubblico. Molti si son seduti per terra, a capo chino, chiusi dentro sè stessi; qualcuno disteso (morto?) e qualcun altro ancora che mimava lo sbarco in Normandia, fingendo di lanciare bombe a mano all’indirizzo del ninja in segno di disappunto sul fatto che dopo quasi due ore ancora respirava. Per quanto mi riguarda, il mio seppuku è stato compiuto ed il mio onore è più o meno integro, sta a Voi adesso su Youtube guadagnarvelo, e mi raccomando…godetevela tutta!
Autore: A.Giulio Magliulo
www.myspace.com/keijihaino3