Il reportage qui di seguito non è frutto di chi ai festival ci va per vedersi le band dal fondo dei palchi, ma di chi spende consapevolmente i soldi che spende per divertirsi, sentirsi igruppi che ama e farsi coinvolgere.
La recensione della tre giorni Pukkelpop non può che venire da una fan di tutte le band che sotto verranno citate; coinvolgimenti emotivi o meno è giusto raccontare ciò che è stato il 25° anno di questo festival belga che si tiene in una distesa verde pianeggiante chiamata Kiewitt a pochi chilometri da Bruxelles.
Gli otto palchi sono tutti facilmente raggiungibili in pochi minuti e nonostante il primo sold out storico la situazione non è cosi tragica come mi aspettavo.
Day one. Giovedì 19 agosto.
Primo gruppo in programma Frightened Rabbit, band scozzese composta da quattro elementi. Suonano un folk misto ad un rock aggressivo, belli, armoniosi; d’altronde non mi aspettavo altro. Chiusura con Keep Yourself Warm, se non la conoscete andate ad ascoltarla e date un occhiata al testo. Meravigliosamente triste!
Dopo di che è l’ora del cazzeggio e si opta per i tanto mal definiti All Time Low. La band capitanata da Alex Gaskarth conferma invece le mie aspettative; un gruppo non originale ma pur sempre divertente e coinvolgente. Si tuffano sulle persone e si lasciano trasportare dall’entusiasmo; anche loro promossi. Poi è il momento di dividere un ora in due parti e smezzare il mio entusiasmo tra Black Rebel Motorcycle Club e Biffy Clyro, miseramente sovrapposti di 10 minuti e fortunatamente collocati in due palchi adiacenti. Che dire? BRMC una conferma, Biffy Clyro uno shock; potenti, dinamici, il leader Simon Neil, una furia. Skinny jeans blu elettrico e petto nudo a mostrare i numerosi tatuaggi che lo contraddistinguono, capigliatura e barba color platino a coprire il volto sudato dal primo secondo di set. Memorabili!
Finalmente poi giunge il primo gruppo al quale sono veramente affezionata, è l’ora dei Blink 182. Ore 18.35,main stage. Una massa di gente è li pronta a sentire la band dopo anni di assenza. Sfortunatamente non ero nelle primissime file ma la visuale era comunque perfetta. Tom DeLonge, Mark Hoppus e Travis Barker salgono sul palco come se fossero rimasti nel 2000. Stessi pantaloni alla californiana, stesso viso, nessun segno di vecchiaia. Tecnicamente non sono mai stati perfetti ma la scaletta fatta di pezzi memorabili e alcune ballate che ha distinto il loro skate punk ha reso il set piacevole. Tom DeLonge è un paroliere nato. Intrattiene e diverte il pubblico mentre sui maxi schermi vengono proiettate le immagini di un pubblico in totale delirio. Reggiseni che volano, pogo festoso e cartelli che confermano che i Blink dopo anni e anni di carriera sono ancora amatissimi dalla gente. Il trio californiano chiude il loro set di un ora con la acclamatissima Damnit mentre in scaletta non sono mancate All the Small things (che Tom ha simpaticamente dedicato a se stesso, chi vuole intendere, intenda) e What’s My Age Again; anche Josie, Dumpweed e Man Overboard pezzi a me particolarmente cari erano in scaletta; peccato per Don’t Leave Me e Carousel, ma non si può aver tutto dalla vita! Dopo i Blink 182 e qualche ora di pausa è la volta dei Placebo. La mia terza volta e uno dei miei gruppi preferiti, e lo dico senza vergogna, anche se sono consapevole della pioggia di critiche che vengono fatte continuamente a Brian Molko. Non mi importa, sono una fan e come tale mi sorbisco anche un’ora di Iron Maiden delle due in programma (chiedo perdono ai fan dei Maiden) pur di acciuffare un posto nelle primissime file. Ed eccomi lì, in seconda fila centrale, con due ragazze molto basse davanti a me che alta non sono: dicesi fortuna questa.
I Placebo iniziano il loro set alle 23.30 aprendo con Nancy Boy, ormai tornata in scaletta da un paio di mesi. Ci sono pezzi vecchi e pezzi nuovi come Bright Lights e Never Ending Why; c’è Bionic, Every you and Every me, Meds, Post Blue e c’è una cover, All Apologies dei Nirvana, perfetta. C’è un Brian Molko allegro, gioviale, che mima i testi e coinvolge il pubblico. La back line con gli altri membri del gruppo è fantastica, i Placebo suonano divinamente e chiudendo con Taste In Men vengono inondati da un applauso infinito dopo un ora e mezza di musica perfettamente confezionata. Voi, che ancora li criticate, se un giorno li vedrete live vi ricrederete sicuramente. I Placebo sono una garanzia della musica, per quanto riguarda la mia opinione.
Day 2. Venerdì 20 Agosto.
La giornata si apre nel cosi soprannominato ‘sauna stage’ ovvero lo Chateau, un palco molto piccolo che somiglia ad un tendone di un circo. Il caldo è insopportabile ma gli Harlem, gruppo garage di Nashville scaldano gli animi delle persone li presenti, che saltano al ritmo frenetico del loro rock n roll americano che fa sudare e divertire; il trio ci sa fare ma sfortunatamente il loro set finisce bruscamente, causa’tempo scaduto’. E’ la volta poi di spostarsi allo Shelter, quello che diventerà la culla quotidiana per quanto riguarda me e le mie compagne. Sono le 14.30 e i Pulled Apart By Horses salgono sul palco. Il loro punk hardcore misto a screamo è favoloso. Sono dei pazzi; nonostante tutto l’indifferenza del pubblico belga davanti a cotanta energia, io e le mie compagnie ci abbandoniamo a quel che possiamo definire un pogo a tre, e i quattro di Leeds rispondono schiantandosi violentemente su di noi, urlandoci in faccia e spalmandoci il loro sudore ovunque. Il set più potente e coinvolgente fin’ora. Dopo quaranta minuti di puro hardcore, urla e sputi c’è anche tempo per un timido saluto.
Sotto il sole cocente l’avventura si sposta al main stage dove a breve saliranno sul palco i White Lies. Il set mi cattura poco, anche perché è la mia quarta volta per quanto riguarda la band di Ealing. Suonano molti pezzi nuovi e alcune delle hit più famose come Death e Farewell to the Fairground. Finalmente però posso dire che la voce del frontman Harry McVeigh c’è, è viva e presente. Il giovane ha dimostrato di avere una voce veramente meravigliosa questa volta, senza mai stonare o calare di tono; ha confermato anche live ciò che aveva dimostrato su disco.
Senza mai respirare si va al Marquee, è il momento dei Foals. Che dire? Fortissimi. Mai una band mi era piaciuta cosi tanto dal vivo rispetto al disco. Per cui se amate il disco, dal vivo vi stupiranno a dir poco. I Foals, grazie non solo al loro frontman Yannis Philippakis, ma anche al mix di carica ed energia giusta che plasma la loro musica, sanno fare del live set un loro punto di forza. Stage diving per concludere nel delirio dopo 50 minuti vissuti completamente nel sudore e nell’euforia.
E adesso come una comune mortale, sarei dovuta andare ad addormentarmi ai Mumford and Sons (perdono per tutti i fan) ma il mio cuore e la mia euforia mi ha spinta verso il Dance Hall dove di lì a poco avrebbero iniziato gli Hot Chip; e per loro spendo solo due paroline di puro amore: se volete divertirvi ballando e sudando sono ciò che cercate. Se volete ascoltare dell’ottima musica dance dal vivo, loro sono ciò che cercate. Insomma, non vi deluderanno!
Alle 22.30 poi, i Gallows ci attendevano allo Shelter e noi eravamo li in transenna pronte anche per il seguito, NOFX subito dopo. Forse avrei dovuto fotografare le nostre magliette (Marroni) per farvi capire ciò che è potuto succedere durante il loro set. In preda al panico e completamente schiacciata contro la transenna, mi tiro fuori a mò di Crowd Surfin; e se questo non è punk sporco e lercio, trovatemelo voi un altro finale migliore per questa giornata a dir poco massacrante. Sudore ovunque, terra, lividi, ematomi.
Day 3 Sabato 21 Agosto.
Come un rottame mi dirigo nell’area festival trascinandomi dietro i postumi della serata prima; tutte le ferite, ancora belle fresche, ancora doloranti. Primo gruppo Cymbals Eat Guitars. In qui pochi minuti a loro concessi si dimostrano una band di alto valor, forse ancora un po’ acerbi ma pur sempre gradevoli; ciò che sorprende è la voce perfettamente impostata del frontman Joseph D’Agostino che fa della sua dote ciò che vuole. E’ il momento degli OK GO al main stage a mezzogiorno. Questo gruppo non delude. Damian Kulash, frontman di grande presenza scenica, gioca col pubblico, chiacchiera, scherza, fa salire le persone sul palco per ballare le loro strampalate coreografie (e chi non ha mai visto una coreografia degli Ok Go in uno dei loro mitici video musicali?); e cosi i miseri 35 minuti di set volano tra Here It Goes Again (pezzo dei tapis roulant, ricordate?) Get Over It, Invincible e il tormentone Too Shall Pass.
Dopo 2 ore di riposo, anche meritato ci spostammo al Marquee per guadagnare un ottima posizione per i Surfer Blood. Ore 15.05 i cinque giovani di Palm Beach salgono sul palco, accolti con un po’ di freddezza da un pubblico che sembra esser li più per curiosità che per puro interesse come la sottoscritta. Si parte con Fast Jabroni, per poi proseguire con le tracce più belle del loro lavoro Astro Coast. C’è Twin Peaks, Floating Vibes, Harmonix, insomma ci sono tutte compreso un inedito. Ma il pubblico dietro di noi sembra immobile, quasi in contrasto con le nostra urla e i nostri salti che vengono graditi non poco dai membri della band. Swim singolo più o meno conosciuto sembra in qualche modo scuotere la folla di bambolotti accorsa a mio avviso inutilmente (se devi stare impalato, cosa vieni a fare?).
Dopo 50 minuti di set i Surfer Blood salutano il pubblico per nulla intimiditi; il frontman John Paul Pitts lascia il palco più rosso che mai. Per quanto mi riguarda i Surfer Blood meritano un pubblico migliore.
Si corre subito al main stage da Eugene Hutz e i suoi Gogol Bordello, e che bordello! Tarantelle, tamburelli, e metteteci tutti gli strascichi più roccheggianti di un folk che tutto sembra tranne che ciò che è, ed eccovi i Gogol Bordello. Neanche il caldo infernale delle 4 di pomeriggio ha fermato un pubblico in totale delirio. Sudore e bottiglie di acqua volanti ovunque, balletti folkloristici improvvisati sul momento, trenini stile capodanno nel bel mezzo della folla. I minuti volano e un ora di set sembra quasi dieci minuti. Prima di chiudere il nostro festival con Jònsi programmato alle 22.35 sul Marquee c’è ancora il tempo per i The Drums. Se pensate che siano la solita band indie rock che vuole imitare qualcuno, pensate male. I The Drums suonano rock n roll vintage, e lo ballano anche. Il frontman Jonathan Pierce è un attore nato. Parla poco ma ciò che dice è ben studiato. Gli da fastidio la gente accorsa solo per Let’s Go Surfing( e come non dargli torto?) e ama tutti coloro che invece conoscono l’intero lavoro dei The Drums, che NME aveva proclamato migliore band emergente del 2010 lo scorso febbraio in occasione degli Awards. Gli arrangiamenti sono riprodotti senza sbavature, il riverbero usato per la voce di Jonathan si sposa perfettamente con il loro stile. Gli altri componenti non spariscono dietro le gesta del giovane biondino con i capelli a scodella e un look tutt’altro che anonimo, ma anzi sulla scia del loro leader si guadagnano occhi e commenti di tutte noi spettatrici, urlatrici e alzatrici di cartelli improvvisati sul momento. I The Drums concludono alle 19.35 e io ho anche il tempo di farmi due salti tamarri dai Soulwax.
Ciò che ricordo? Il Sudore, tanto, sporco; e poi ricordo il mal d’orecchie, feroce. Così mi avvio verso il Marquee per guadagnarmi una transenna per il leader dei Sigur Ros, Jònsi. Ed eccoci per l’atto finale. Jonsi sale sul palco; con lui la sua band pronta a ricreare per noi spettatori quella giusta atmosfera di nostalgia e surrealismo che il disco aveva suscitato.
Dalla prima nota fino all’ultima mi sembra di volare. Dimenticatevi il disco ,che pure è meraviglioso. Jonsi dal vivo è un’altra cosa; una cosa che non potete nemmeno immaginare.
Il groppone alla gola e le lacrime per ogni armonia emessa da quegli strumenti; la potenza della cassa di una batteria; la delicatezza di un pianoforte e la gioia riprodotta dalla voce miscelata nel miglior dei modi si manifestavano tra il pubblico del Marquee sotto forma di lacrime. Grow Til Tall e Kolnidur su tutte.
Dopo questo spettacolo di un ora ci sarebbero stati i 2Many Djs in chiusura al Main stage, ma la motivazione della mia rinuncia sta in quanto riportato sopra.
Così ultimo giro per racimolare qualcosa da bere e via, verso l’albergo per un ultima doccia e un aereo da prendere di li a poche ore. Un piccolo ricordo va al cantante degli Ou Est le Swimming Pool suicidatosi dopo il set della band al Dance Hall venerdì 20 Agosto; altro pensiero va al tecnico del suono, nonché padre di Robert Levon Been bassista dei Black Rebel Motorcycle Club deceduto per un arresto cardiaco mentre il figlio suonava.
Auguri anche alle 45 coppie che si sono sposate nella cappella dell’amore!
Il Pukkelpop rimane uno dei festival più belli d’Europa e una garanzia assoluta.
Autore: Melissa Velotti
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