Quando nel 1996 l’Italia “ufficiale” era infiammata da canzoncine urlate a squarciagola per qualche minuto da fan sfegatati di “La Flaca” e “Più bella cosa” ma destinate, nei casi più fortunati, a sparire dalla scena nel giro di qualche mese, nel sottobosco musicale nascevano perle rare, impossibili da riprodurre, pietre miliari di un’epoca. Esce in quell’anno Neffa & I Messaggeri della Dopa e, oltreoceano, la Geffen Records cannibalizza gli ultimi (si fa per dire) strascichi dell’era post-Nirvana con “From the Muddy Banks of the Wishkah” ,un album live, naturalmente postumo, a due anni da quel maledetto aprile del ’94.
Intanto, però, a Sanremo succede qualcosa decisamente fuori dai canoni. Vestiti come i The Rockets, argentati da testa ai piedi, loschi individui intonano uno di quei tormentoni fuori dal coro, che anche all’orecchio meno attento sembrano decisamente fuori luogo in un circuito talmente anti-musicale come il Sanremo “contemporaneo”, raggiungendo (senza non poche polemiche e “stranezze”) il secondo posto in classifica e vincendo il premio “Mia Martini” da parte della critica.
Italia si, Italia no, Italia gnamme: se famo du spaghi. E’ La terra dei cachi, primo brano (dopo l’immancabile intro) di Eat the Phikis, album della ribalta di Elio e le Storie Tese.
A distanza di 15 anni, sul palco dell’Arenile di Bagnoli, gli Elii hanno deciso di regalare tesori amarcord a coloro i quali, vuoi per l’età, vuoi per l’interesse, non hanno mai avuto la possibilità di apprezzare brani eccezionali, destinati più ai fan che al grande pubblico, come Burattino senza fichi, Caro 2000, Carro (da Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu, primo album della band) o Essere donna oggi. Aprono con Pagano, direttamente da Cicciput (album conosciuto ai più per la collaborazione con Morandi in Fossi Figo e per Shpalman, ma che nasconde altre vere e proprie opere d’arte come Cani e padroni di cani), senza dimenticare classiconi come Servi della Gleba (da Italyan, Rum Casusu Çikti), El Pube e Parco Sempione.
Il punto più alto dell’intera serata si raggiunge però con un meraviglioso medley, fuori da ogni previsione più rosea. Tonza Patonza (grandiosa sigla del Mai Dire Gol dei tempi andati), La Visione (con uno spettacolare Mangoni vestito da rapper), La Chanson e per finire Born to be Abramo, legate in un unico filo multicolore come gli abiti della band che è “andata in India, non so se si vede!”.
Ad ogni brano, Elio annuncia che sarà l’ultimo della serata e ringrazia il pubblico per la presenza. “Perché in un’Italia che preferisce la quantità alla qualità, noi preferiamo offrire pochi pezzi ma buoni” dice Belisari dal palco che però, nel frattempo, proporrà una ventina di brani ad una folla sudatissima ed urlante, inarrestabile fino alla fine, “Forza Panino!” come parola d’ordine ripetuta come un mantra prima, durante e dopo Tapparella, chiusura dell’esibizione.
Tra una band in perfetta forma, un Mangoni “che ha preso 1068 voti a Milano”, brani che pochi sognavano di poter riascoltare dal vivo dopo così tanto tempo, gli Eelst continuano a rappresentare la prova vivente che si può tranquillamente suonare a livelli altissimi per 31 anni, senza svendersi e, soprattutto, divertendosi.
Autore: Alfredo Capuano