Ogni disco dei Wovenhand è un’epifania e quest’ultimo non è da meno. Il riferimento ad uno degli eventi topici del cristianesimo non è casuale, data la profonda spiritualità che caratterizza testi e sonorità della creazione di David Eugene Edwards. Gli Wovenhand, infatti, ci hanno orami abituato ad un gothic folk che attinge tanto dal sound Americana, quanto da quello dei Nativi (cosa che già avveniva con i 16 Horsepower), grazie alla doppia origine di Edwards, che aveva i nonni materni Cherokee e il nonno paterno, con il quale è cresciuto, predicatore protestante. “Silver Sash” esce a sei anni dall’ottimo “Star Treatment” e si differenzia da quest’ultimo perché Edwards & Co., al consolidato e variegato pacchetto sonoro del gruppo della band, vi hanno aggiunto un altro elemento: l’elettronica. Se da un lato la sensazione iniziale è quella che il gruppo abbia posto una distanza rispetto ai primi lavori ad un ascolto più approfondito ci si rende conto che le sonorità digitali si coniugano con gli elementi della tradizione Usa che hanno sempre caratterizzato il loro sound, quantomeno per il suo essere fortemente evocativo e per gli arrangiamenti pieni che poi è il loro marchio di garanzia.
L’utilizzo dell’elettronica non è cosa nuova per Edwards perché nel 2019 ha pubblicato un disco co-firmato con Alexander Hacke degli Einsturzende Neubauten nel quale i due hanno fuso le sonorità del folk Usa con l’electro-industrial proprio tipico del gruppo berlinese. “Silver Sash”, dunque è caratterizzato da ondate soniche nelle quali si miscelano le chitarre elettriche con l’elettronica. Ascoltare per credere la title-track con i suoi momenti scheggiati in digitale o come per la tesa, con deviazioni psichedeliche, “The Lash” che ha rallentamenti e dilatazioni con un testo con riferimenti ad un senso di profonda eternità. Come detto i richiami alla letteratura cristiana, in particolare al Vecchio Testamento, sono i temi fondanti dei testi di Edwards, dunque anche di questi nove brani. Peccato e redenzione sono alla base, di “Tempel Timber” nel suo incedere in maniera dura, serrata, secca e melodica, con chitarre piene e una ritmica che rallenta e poi si riempie, in un saliscendi alla Godspeed You! Black Emperor, anche se la chitarra trova il tempo di andare per conto suo ma di tanto in tanto l’elettronica la incalza. Interamente ispirata Vecchio Testamento è “Sicangu” decisa e secca, scheggiata come un brano punk ma densa e con un sound pieno e riempito dall’elettronica che avanza quasi in maniera ansiogena. Mentre in “Dead Dead Beat” spiritualità, il senso della vergogna e il senso di impotenza causato dall’inesorabile leviatano sono gli elementi sostenuti da un sound epico, potente e incandescente, tanto quanto l’aperta e corale “Omaha” in cui l’elettronica e il rock si miscelano in un sound altrettanto potente ed epico con digressioni verso un post-punk che si fa trascendenza.
Nei testi degli altri brani, invece, ci sono richiami alla spiritualità e alle leggende dei Nativi, per cui in “Duat Hawk” gli Wovenhand si lasciano andare ad una ballata dilatata, morbida e sound Americana, nell’irruente e circolare “Acacia” il blues serrato si trasforma in un rock scheggiato con rimandi punk e con un testo nel quale trovano la sintesi la spiritualità dei Nativi con quella cristiana. “8 of 9”esula dagli altri otto brani perché, nell’inquieta e malinconica marcia, viene trasmesso un senso di irreparabile e irreversibile epicità evocata una dea del paganesimo: Atena.
Edwards con i suoi Wovenhand incarna più di tanti altri cantautori Usa viventi e del passato la tradizione della sua terra, intesa come una fusione delle radici dei Nativi e del Vecchio Testamento e le ali del rock e dell’elettronica.
autore: Vittorio Lannutti