La prima data del tour italiano dei Goose li ha portati a Roma. Li incontriamo all’Alpheus dopo il soundcheck che vede la band belga concentratissima ed impegnata per almeno quaranta minuti dal mio arrivo. Aspetto fuori il locale, li ascolto. Puntualizzano su ogni minimo particolare con il fonico, fra di loro. Ripetono lo stesso attacco più volte. Direte voi: così si fa un soundcheck. Ennò, rispondo io. A guardarli, i Goose, sono veramente i primi della classe. Mickael Karkousse, il frontman, entra in scena solo nella seconda parte, ha una sciarpa elegantemente portata al collo con lo stile di un Fellini d’annata e una camicia blu da pranzo della domenica. L’uomo che ogni genitore vorrebbe conoscere per la propria figlia. I Goose sono dei perfezionisti. E, a quanto ci racconta Karkousse, pare che questa sia la loro caratteristica principale. Dei gran lavoratori, bravi professionisti. Che sarebbe come fare tipo il dentista, ma più figo. E poi dal dentista non è che ti diverti tanto. Nella data romana, invece, detto proprio chiaramente, i Goose hanno spaccato.
Dal 2006 al 2010. Quattro anni intercorsi tra Bring it on e il lancio ufficiale di Synrise, il vostro nuovo album. In quattro anni sono cambiate molte cose, tu stesso hai dichiarato che passare al nuovo lavoro è stato come cambiare macchina. Che macchina avevate prima e quale avete acquistato adesso?
Bring it on riflette uno stato costantemente serrato, è un disco che ti lascia battere continuamente le mani sopra la testa, per aria. Si trattava di una macchina sportiva. Nel nuovo album non volevamo ripetere las tessa esperienza: si trattava di fare quello in cui adesso si cimentano tutti. Così abbiamo comprato una macchina più comoda, con accessori retrò.
Questo lavoro nasce dalla ricerca di un sound molto preciso. E’ stato difficile raggiungere l’idea che avevate in mente e renderla pratica?
Moltissimo. Siamo rimasti in studio per sei settimane, letteralmente chiusi dentro fino a tarda notte, a volte qualcuno si svegliava e registrava quello che gli era venuto in mente. E’ molto importante concentrare tutte le energie creative e non disperdere nulla.
Gran parte delle canzoni di Bring it on (2006) sono pensate ed eseguite in chiave maggiore, per quanto riguarda la tonalità. Tutto Synrise (2010) è invece composto in chiave minore e l’effetto lo avvicina alle esperienze della musica trance anni novanta inglese. Vi siete lasciati ispirare da questo tipo di scuola?
Volevamo trasmettere particolari emozioni, allegria, connessione tra le persone, molte di queste caratteristiche erano il punto di partenza anche della trance inglese degli anni novanta, il punto è che la nostra musica non è autodistruttiva né lobotomizzante, il nostro sound può essere definito in chiave minore, ma sempre accompagnato da speranza. La chiave maggiore comportava euforia, un sound brillante, questa volta invece è più mitigato. La melodia è fondamentale nella musica dance che abbiamo in mente.
Come vi sentite collocati nel panorama della musica belga, patria dell’elettronica più apprezzata attualmente?
Non ci consideriamo una band di musica elettronica, nel definirci elettrorock ci sentiamo molto di più appartenenti all’ultima parte dell’aggettivo. Non usiamo laptop se non per registrare suoni, per lo più giochiamo molto sul ruolo dei sintetizzatori, che ci avvicina alla vecchia scuola dei dancefloor. Gli strumenti che usiamo sono quelli di una rock band, all’elettronica di un certo tipo rubiamo il ritmo. Perfino nelle registrazioni del nuovo album abbiamo preferito suonare live, utilizzando il meno possibile il supporto elettronico. Questo ci è stato possibile grazie ad una grande live room presente in studio. Il risultato che volevamo ottenere era sulla scia di Speak & Spell dei Depeche Mode.
Ma molte delle canzoni sono state influenzate da quello che tu ascoltavi quando eri bambino. di cosa si trattava?Soprattutto musica che veniva dalla televisione, molti telefilm anni settanta e soprattutto da Michael Jackson.
E fra i contemporanei?
Per noi i migliori restano i Daft Punk di Homework.
Hai spesso dichiarato che il nuovo album potrebbe essere la colonna sonora ideale per un film non ancora scritto. Di che film si dovrebbe trattare?
Dovrebbe essere un film fatto di inseguimenti su costosissime automobili.
Quindi tra i progetti futuri dobbiamo aspettarci anche una vera colonna sonora?
Ci piacerebbe molto. Per adesso di certo abbiamo una collaborazione con Peaches e un’altra con i Bloody Betroots, questa estate abbiamo fissato molte date in giro per i festival, inoltre dopo questo tour ci concentreremo sui dj set.
Autore: Olga Campofreda
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