É almeno dalla seconda metà del novecento che parliamo, non senza ragione, di società dell’immagine. Per quanto gli strumenti di cattura e riproduzione delle immagini – fotografia, cinema, televisione – fossero per lo più ben precedenti, è soprattutto a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso che l’immagine (fissa o in movimento) si impone nell’immaginario collettivo come elemento caratterizzante di un epoca.
A determinare questo scatto, come purtroppo spesso accade, con ogni probabilità sono state le guerre consumatesi durante la prima metà del secolo: la I Guerra Mondiale, e soprattutto la Guerra Civile spagnola e la II Guerra Mondiale.
Le ultime due, infatti, non solo furono massicciamente documentate da fotografi e cineoperatori, ma segnarono anche il passaggio ad un uso più consapevole degli strumenti di cattura. In qualche misura, è lì che nasce il documentario.
Tutta la seconda metà del novecento è segnata dalla presenza dell’immagine. L’avvento della televisione come mezzo d’intrattenimento ed informazione di massa, la crescita impetuosa dell’industria cinematografica, la grande diffusione della stampa – con la nascita dei rotocalchi, in gran parte basati appunto sulle immagini fotografiche – ne fanno un elemento costituente della cultura popolare (e di quella alta), sino al punto di far nascere quell’espressione che la pone come elemento identitario dell’intera società.
Contemporaneamente all’affermarsi di questa presenza, se ne afferma l’autorevolezza. L’immagine è sinonimo di verità, inconfutabile. Per quanto fosse evidente già allora, almeno ai più avveduti, che anche le immagini potessero essere manipolate (o comunque usate per manipolare), quest’aura di incontrovertibilità è stata fortissima, ed essa stessa è stata – ad un tempo – frutto e concausa della pervasività dell’immagine. Persino nel luogo comune “l’ha detto la televisione” è possibile rintracciare l’autorevolezza delle immagini.
Il passaggio al nuovo millennio, segna però una nuova stagione.
Per un verso, l’overflow informativo produce, com’è ovvio, un effetto di saturazione percettiva: troppe informazioni (anche visive) superano la capacità soggettiva di elaborazione, e persino di memorizzazione. Non c’è più il tempo sufficiente per fissare il ricordo di una specifica informazione, perchè ne subentrano prima altre, ed il flusso è continuo.
Per altro verso, cresce la consapevolezza diffusa che l’immagine non è – di per sé, ed incontrovertibilmente – specchio della verità. La crescita, e soprattutto il disvelamento, dei casi di manipolazione, insinua il dubbio, incrina la fiducia monolitica nell’immagine come certezza.
Ovviamente, questo sarebbe in sé un passaggio positivo, poiché implica una diversa consapevolezza, una maggiore e più matura capacità di lettura.
Ma a questa crescita critica, da parte dei fruitori, si affiancano altri elementi che cambiano assolutamente lo scenario.
Mentre l’immagine prodotta tecnicamente assurge definitivamente al rango di arte (fotografia, videoarte), essa perde via via il suo ruolo di documentazione visiva della realtà.
Il soggetto della documentazione visiva cessa di essere il mondo intorno a noi – i luoghi, i fatti.
Il fotogiornalismo è praticamente scomparso. Nei quotidiani troviamo ormai quasi esclusivamente foto di persone (o meglio, di personaggi), il più delle volte per di più mere foto di repertorio. Le facce hanno preso il posto dei fatti.
Nei telegiornali, a fronte di una moltiplicata possibilità tecnica di copertura dei fatti, sono ancora le facce a farla da padrone. La gran parte delle notizie sono lette in video da un giornalista conduttore, ma anche la quasi totalità dei servizi in esterno sono caratterizzati dal medesimo stilema: un giornalista sul luogo del fatto, inquadrato dalla telecamera, che lo racconta. Al più, un intervista ad un testimone del fatto, al parente della vittima, al personaggio (se la notizia attiene alla politica o allo spettacolo). Anche qui, largo uso delle immagini di repertorio.
Il documentario è scomparso dalla programmazione della tv generalista, relegato ai canali specialistici, e quasi esclusivamente incentrato su temi asettici: la natura, le scienze, la storia.
L’immagine, come strumento di documentazione della realtà contemporanea, è semplicemente uscita dall’orizzonte ottico.
Un riflesso estremo di questa tendenza si può rintracciare financo negli effetti pratici della diffusione di massa degli strumenti tecnologici per la cattura delle immagini.
Fotocamere e videocamere digitali prima, gli smartphone poi, hanno messo praticamente chiunque in grado di catturare frammenti visivi della realtà. Milioni, miliardi di potenziali fotoreporter, costantemente in giro per il pianeta.
Non a caso, quando questo fenomeno ha cominciato ad assumere dimensioni di massa, era contestualmente nata l’idea del giornalismo dal basso; il modello youReporter sembrava la nuova frontiera.
L’esito è stato invece assolutamente diverso, se non opposto. La dilagante moda del selfie ne costituisce l’epifenomeno più rappresentativo. L’immagine si è ridotta a specchio del singolo.
Ma, per affrontare la questione con una logica di mercato, quanto in tutto ciò è dovuto alla domanda, e quanto all’offerta?
É l’attenzione del pubblico, che si è allontanata dalla sfera superpersonale, per rifugiarsi nella nicchia del sé, e quindi restringendo la domanda ha reindirizzato l’offerta?
O non è piuttosto questa che, per innumerevoli ragioni, ha rinunciato all’immagine come mezzo di documentazione della realtà, producendo quindi l’asfissia della domanda?
Certo, se giornali e tv non acquistano più servizi di foto/video giornalismo, inevitabilmente ne calerà drasticamente anche la produzione. E certo, come già detto le immagini sono manipolabili e si possono usare per manipolare.
Ma quanto meno un frammento di verità oggettiva, è presente in ogni immagine. E se lasciamo che a raccontarci il mondo siano solo le parole (che invece, inevitabilmente, risentono della soggettività, e sono strumento principe per la distorsione del reale), rinunciamo a qualcosa di fondamentale.
Se domani, per veder documentata la realtà, non avremo altra scelta che andare in un museo d’arte contemporanea, forse dovremmo fermarci a riflettere. Che insieme all’immagine si sia persa anche la società?
autore: Enrico Tomasielli