Corpo di mille balene (oddio, cosa mi ha preso?!)! I Cerberus Shoal, qui, adesso. A volte ritornano. Eravamo all’alba del nuovo millennio quando la sorte affidava al mio (non logorroico come adesso) “trattamento recensorio” quel “Crash My Moon Yacht” che, nella sua indistinta varietà (è un po’ un paradosso, ok, ma in fondo dopo centinaia di altri ascolti la memoria, suo malgrado, non riesce a fare il suo bravo dovere), mi lasciò, come segno tangibile e perpetuabile nell’ascolto, la gemma kingcrimsoniana di ‘Yes Sir, No Sir’. A 4 anni di distanza un netto senso di spaesamento si fa strada, così, quasi alla sprovvista. Conseguenza di un sound che può dirsi radicalmente cambiato.
Non so a cosa possa servire intavolare dissertazioni sulla coerenza stilistica nel momento in cui si ha di fronte un ensemble eclettico quale la band del Maine (north-east, appunto) aveva già dimostrato di essere. Tre album (uno dei quali doppio), un mini e ben 4 split si sono succeduti dal 2000 ad oggi. Non vi inganni però questo calendario. Le prime esecuzioni (dal vivo) dei brani di “Bastion of Itchy Preeves” datano proprio 2000, ed è curioso come le relative registrazioni siano state messe in coda a quelle di brani dalla composizione più recente. Ciò che seguirà su queste righe andrà quindi inteso in retrospettiva. E mi vengono quasi i brividi, se è vero che l’iniziale ‘Grandsire’, con il suo crescente tinitnnio metallico, non fa che materializzare un corteo pagano che lentamente avanza in qualche imprecisata bruma nordica, per quindi prodigarsi nel cuore, cantato, della cerimonia. E anche parecchi episodi a seguire indulgono non poco in una onirica e litanistica cripticità sospesa tra tensioni proto-spirituali e manipolazione delle “vestigia” del presente (l’artwork gioca molto con immagini quotidiano-consumistiche del mondo occidentale).
Benchè il comune denominatore dei brani sembri essere quello di mille e un bizzarro strumento al servizio di una sferragliante (ma non allegra) teatralità, al contempo concreta e astratta, l’essenza dei Cerberus Shoal non ha un volto ben definito. Nel momento in cui l’immagine (Rollerball a tirocinio dai Faust) sembra farsi più nitida, sbucano fuori sprazzi di africanità sapientemente depurati dal facile ricorso al tribalismo più omologato. Né mancano momenti (‘Bogart the Change’) in cui l’immagine si fissa tra le più ordinarie pareti di uno studio nel bel mezzo di reiterati esercizi jazz, una “setta” di freak immersi nel provare e riprovare sempre lo stesso attacco. Sei facce sfocate, deformate, ritoccate. Come li si ritrare nella inner sleeve.
Autore: Bob Villani