Di nuovo tra noi l’iper-carismatico Ian Svenonius. Uno che a fine anni 90 era riuscito quasi a farmi ricadere in un para-feticismo da adolescente ai primi bollori del r’n’r con la sua strabiliante creatura Make-Up (no, i nation of Ulysses non sono riuscito a viverli “in tempo rale”). E’ il secondo album come Weird War, e nel frattempo Ian si è fatto vivo anche come Scene Creamers, senza farci capire se si trattasse o meno della stessa band. E’ ancora con lui Michelle Mae, la bella e kilometrica bassista. Come nel primo, omonimo album, e come ai descritti tempi d’oro. C’è anche tale Alex Minoff alla chitarra, più qualche guest (Azita, JJ Rox) decisamente carneade per noi poveri scribacchini indipendenti.
“Tempi d’oro”. Inutile nasconderlo, c’è una vena di malinconia neanche troppo sottile in queste parole, che lascia altresì intravedere, da parte di chi scrive, un entusiasmo non eccessivo per questa ormai non più nuova entità musicale. Come nelle precedenti esperienze, anche nei Weird War Ian trasfonde proclami da progetto estetico-culturale portatore di nuovi dettami, nuovi punti di vista, forse – chissà? – nuove verità. Ci sono sempre “le milizie dell’ovvio” da combattere, e questa, appunto, è una “pazza guerra”. Tuttavia, come già nel disco precedente, le armi sembrano essersi un po’ spuntate.
Ian non ha smesso di attingere ispirazione dall’attitudine fortemente emotiva, espressiva e comunicativa (che tocca nel live show il suo naturale apice) di un James Brown. Me lo vedo ancora su di un palco a strillare ferinamente, a dimenarsi forsennatamente, a guardare il pubblico negli occhi e a mescolarsi ad esso, giù dallo stage, nei momenti più “caldi”. E’ venuta parzialmente meno la varietà del sound.
Prendete un brano come ‘AK47’, lanciato come singolo perfino su NME stereo ma che, paradossalmente, è forse uno dei peggiori brani di questo “If You Can’t…”: scarno come del buon 60s garage’n’roll, carico di groove e vibrazioni ma, ahimè, fortemente ripetitivo e sfornito del “punch” che occorre per mettere al tappeto l’ascoltatore. Non c’è più la componente gospel, si potrebbe sbrigativamente dire, e quella garage che l’ha rimpiazzata non punge come dovrebbe. Ma c’è che i brani sono più riff-based, dove il riff è uno, costante fino alla monotonia, per tutto il brano. E anche la voce di Ian, prima furiosa e convulsa ma mai eccessivamente padrona né fuori dei brani, non trascina più come un tempo. Fatta eccezione, per fortuna, in brani come la formidabile opening-track (‘Grand Fraud’, che ha in ‘Music for Masturbation’ una bizzarra intro), sicuramente il brano più riuscito del set. Altrove abbiamo anche dell’ottimo funk (‘Store Bought Pot’, saturo di wah-wah, e ‘NDSP’, che va nelle budella prima che nelle orecchie) e momenti meno movimentati e abbastanza inclini a un certo lirismo (‘Tess’ e il romanticissimo epilogo di ‘One By One’).
Gli altri episodi non vanno neanche tanto male. Se non stessimo parlando di Svenonius potremmo anche candidarli come valida alternativa alle “the” rock’n’roll bands sparse per il globo. Ma lui può – e deve – di più. E non escludo che su questo punto concorderebbe…
Autore: Bob Villani