Che cosa è successo ai Simple Minds in questi ultimi anni? Qualunque cosa sia, è una bella storia. Anzi bellissima. Ed è anche una storia che insegna molto.
Che la storica band di Glasgow, paladina, all’inizio degli anni ’80, del post-punk elettronico insieme a Depeche Mode, Cocteau Twins e pochi altri, divenuta poi band rock dal successo planetario a metà anni ’80, avesse subito una pericolosa involuzione da fine anni ’90 in poi è cosa risaputa.
Ma troppi critici, e una clamorosa scomparsa del pubblico di massa, avevano decretato troppo presto la morte di Jim Kerr e compagni, a quanto pare, trascurando le pur belle cose che si intravedevano in dischi oggettivamente non brillanti.
L’apice del successo mondiale i Simple Minds lo conquistano verso la fine degli ’80 con un trittico di album, Sparkle in the Rain, Once Upon a Time e Street Fighting Years, che, tanto per dircela tutta, non sono necessariamente gli album più belli fino ad allora prodotti dalla band.
Certo, sono gli album più rock-pop: gli album delle hit che tutti, ma proprio tutti conoscono, da Waterfront, Don’t You, a Alive and Kicking a Mandela Day, per capirci. Sono gli album in cui in quegli anni i Simple Minds contendono, a buon diritto, agli U2 la palma di cavalieri del rock epico e positivo, e anche impegnato (Street Fighting Years in particolare è il disco impegnato della band, da Mandela Day, alla cover di Biko, a Belfast Child). Ma in quella fase, pur mettendocela tutta, e pur producendo degli splendidi capolavori, restano un passo indietro rispetto agli U2 dell’epoca.
Poi, negli anni ’90, mentre gli U2 fanno un salto in avanti e oltre il rock puro e impegnato (con la svolta elettronica di Achtung Baby, Zooropa e Pop), i Simple Minds restano al passo. Real Life e Good News from the Next World non sono affatto brutti, come troppi hanno detto, ma certo non sono confrontabili né con la produzione dei loro cugini-amici-rivali U2 di quel periodo, né con i loro album precedenti.
Arriva poi la vera decadenza: Neapolis, Our Secrets are the Same e l’album di cover Neon Lights sono veramente poco più che insignificanti. Anche per i fan più accaniti.
Ecco che però con gli album del decennio 2000, Cry, Black and White e Graffiti Soul (soprattutto gli ultimi due), accade qualcosa di strano: c’è una ripresa, ma nessuno, fra critica e pubblico, se ne accorge.
Quei dischi, troppo ingiustamente sottovalutati, hanno subito l’effetto alone: sono discreti, ma pochi li ascoltano davvero, e pochi riescono a trovare le perle che pure in effetti ci sono (Cry, Black and White, Home, Moscow Underground, Shadow and Light, The Jeweller, Rockets, e si potrebbe continuare). Ma è pur vero che, rispetto a ciò che hanno prodotto dal 2014 ad oggi, sembrano a posteriori solo prove generali della rinascita.
La rinascita, preannunciata nel 2012 dal cofanetto live 5×5, traduzione su disco di un ottimo tour in cui intelligentemente per recuperare i fan propongono 5 singoli dai primi 5 album della loro storia (andando a ripescare quindi molto più in là dei pezzi famosi), si fa definitiva con un trittico impressionante dal 2014 ad oggi: anzitutto Big Music, album che molta critica ha definito (a torto) la cosa migliore da loro fatta dopo Sparkle in the Rain, poi la rivisitazione acustica dei loro classici in un tour e in album (Simple Minds acustic, 2016) e infine, a suggellare il tutto, questo autentico capolavoro assoluto che è il sorprendente Walk Between Worlds, uscito il 2 febbraio.
Il rimpasto rispetto all’ultimo disco (l’ennesimo a dir la verità) con fuori Mel Gaynor e Andy Gillespie, e dentro Catherine AD, la percussionista Cherisse Osei ed il multistrumentista Gordy Goudei, ovvero coloro che hanno suonato nel tour Acoustic del 2017, sembra aver giovato ulteriormente, anche se i fan piangeranno sempre l’assenza di Mel Gaynor più di tutti.
Insomma 18 album (più due di lati b ecc.), 9 diverse case discogtrafiche, e 18 musicisti che dall’inizio si sono affiancati al duo di base (sempre lo stesso ed indistruttibile, la vera anima delle Menti Semplici, ovvero Charlie Burchill alla chitarra e Jim Kerr alla voce), ed essere oggi più alive and kicking che mai non è una cosa che può succedere a chiunque.
Oggi Kerr e Burchill si riprendono davvero una grande rivincita con chi li voleva defunti: con Walk Between Worlds sono di nuovo nella Top Twenty europea, ritorna anche il pubblico ai concerti, e la critica è tutta ad osannarli.
Tutto bene dunque? Si, davvero tutto bene stavolta. Walk Between Worlds è un capolavoro, e a differenza di Big Music, dove non tutte le 11 tracce erano stupende, qui abbiamo veramente l’en plein. Come ci sono riusciti?
La formula di questo disco è quella di coniugare certa elettronica dark dei primissimi tempi, quelli mitici di Life in a Day, Empires and Dance, Sons and Fascination (a giudizio di chi scrive l’album più bello e tuttora inarrivabile dei Simple Minds, ma attenzione ad ascoltarlo se non siete fan: vi sembrerà una band diversa da quella di Don’t You) con le cose più belle del loro rock-pop anni ’80 (New Gold Dream e Sparkle in the Rain su tutti), senza tuttavia copiarsi e risultare noiosi. Anzi, tra Big Music e Walk Between Worlds ritrovi certo stile, ma trovi anche un sound nuovo. E’ come se avessero coniugato quei due generi di allora che rappresentano la loro storia, e ne avessero tirato fuori un mix originale.
La splendida In Dreams, per esempio, oppure Magic, o Utopia, Silent Kiss e soprattutto la meravigliosa The Signal and the Noise, sembrano vicini all’elettro-underground degli esordi, pieni di synth e soluzioni e arrangiamenti al computer, ma sono più solari dei pezzi di Sons and Fascination e Sister Feelings Call, mentre Barrowland Star, preziosissima, inaugura sin dall’esordio, dentro il disco stesso, la parte più vicina al rock-pop epico, unite alle stupende Summer, dall’intro irresistibile, Walk Between Worlds, la emozionante e molto eighties cover di Dirty Old Town live, Angel Underneath My Skin, e il trionfo di Sense of Discovery, che senza tema si può definire, anche per i cori femminili, la nuova Alive and Kicking della band, senza che queste suonino retoriche come sarebbero delle pure copie di Mandela Day o Once Upon a Time.
Qualcuno avrebbe giurato che il miracolo di Big Music non si sarebbe potuto ripetere: e invece i Simple Minds vanno anche oltre quel già splendido disco.
Come spiegare tutto ciò? Posto che una bella sorpresa non ha bisogno di spiegazioni, si può pensare che il lavoro di rivisitazione dei pezzi storici fatto attraverso le versioni acustiche li abbia portati a recuperare certe sonorità, a riscriverle dall’interno, sviscerandole e quasi ristrutturandole (questa è l’impressione che dà Sense of Discovery, il capolavoro assoluto del disco, nuova ma al contempo antica) ma si deve anche aggiungere che, come detto, gli album precedenti a questo trittico non erano così brutti come l’insuccesso di pubblico li aveva bollati.
Il punto fantastico è che Walk Between Worlds e il suo gemello Big Music suonano anche nuovi: hanno cioè un sound freschissimo e tutto suo, che è diverso da quello sia dei dischi del 2000, che di quelli anni ’90, che di quelli anni ’80. Restano dischi probabilmente inferiori ai grandi classici come New Gold Dream e Sparkle in the Rain, ma hanno il grande merito di non scimmiottare se stessi, e creare una variazione di stile, che pure rimane nel solco inconfondibile dei Simple Minds. Honest Town, Blindfolded, Midnight Walking, Let the Day Begin, Big Music, dall’album omonimo del 2014, e oggi In Dreams, Summer, Magic, Sense of Discovery, the Signal and the Noise sono, come dire, dei capolavori a sé, che meriterebbero davvero un greatest hits tutto proprio, a suggello di questo nuovo risveglio.
Ora i Simple Minds affronteranno i live: anche qui in Italia, ben sei date in estate (dopo che nel 2017 erano stati a Roma, Milano e Bologna per il tour acustico nei teatri, che alla fine portava immancabilmente gli spettatori a sollevare le sedie ed andare a ballare in prima fila sotto il palco), a Macerata, Cremona, Genova, Roma, Marostica e Udine nella splendida cornice di piazza Castello.
Ma quello per loro non è mai stato un problema: chi vi scrive li ha visti a Portici nel 1999 davanti a sole 200 persone (il punto più basso dei live della loro carriera in termini di pubblico forse) e ha potuto notare che anche in quelle occasioni davano il massimo. E il massimo dei Simple Minds è tra i massimi degli spettacoli rock live: peso degli anni a parte, Jim Kerr è ancora quell’anchor-man straordinario secondo solo a Bono, Springsteen, Jagger e pochi altri. E se la band è quella del tour acustico, il risultato sarà senza dubbio straordinario.
Ci sarà solo per loro l’imbarazzo fra suonare i pezzi nuovi, da Big Music ad oggi, che meritano più che una stringata selezione, e i cavalli di battaglia di sempre che pure il pubblico vorrà sentire.
Beh, una soluzione la offre un fan di vecchia data: un bel concerto da 30-35 pezzi e tutti saranno contenti! Ma anche se non sarà così, nessuno sarà deluso. C’è da giurarci.
La rinascita dei Simple Minds è una bella storia. Anzi, bellissima. Che possa servire da esempio ai loro cugini storici, o a band più recenti nate con quello stesso sound e ora decisamente smarrite (U2, Coldplay)?
La speranza è l’ultima a morire, e questa storia ce lo insegna.
https://www.simpleminds.com/
https://www.bmg.com/
autore: Francesco Postiglione