di Pedro Almodovar, con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Bárbara Lennie
Almodovar torna sempre alla madre (sua madre?). Il percorso può essere tortuoso fuori dal tempo dalle mode dallo spazio, ma alla fine è sempre nel guscio della donna che cerca il conforto estremo. La madonnina (Elena Anaya) pronta a tornare nel grembo questa volta ha le fattezze di una ragazza reclusa come un topino in una camera bianca. Un panopticon di foggia castigliana.
“La pelle che abito” è costruito come una matrijoska tanto bellina. La storia sembra orientata in una direzione e invece – bum – salta in scena un tizio vestito da uomo tigre nella stanza della ragazza-cavia e l’ago della bussola impazzisce, come accadeva nelle storie a bivi pubblicate su Topolino. E’ in quel preciso istante – uno stupro – che Almodovar mette gli attori come panni sporchi (colorati) in lavatrice, spinge il tasto e centrifuga.
Il risultato è il candore asciutto del suo melò marchio di fabbrica (una perdita dolorosa, una ferita che non si rimargina, un amore impossibile), annerito da ricami thriller e arricchito, in sottotesto, dalla rivisitazione di Frankestein, creatura mai-morta che ritorna in vita e si ribella al Padre che l’ha generata.
Il drammone emana odore di etere, strumentale alla narcosi dello spettatore. Ci svegliamo dopo 2 ore di film in sala con un pisello in meno. Anche le spettatrici si sentono come mancare qualcosa, qualcosa di pre-natale. Perbacco, Pedro ci ha seviziati allegramente per mezzo di Antonio Banderas, suo pupillo e qui chirurgo loco.
Il regista impasta un altro film di contenzione, dopo quell’inarrivabile vetta della camera della giovane in coma in Parla con lei. Svolazziamo dalle parti di Time di Kim ki Duk, anche se c’è molta meno poesia a favore della plasticità da fotoromanzo. E La madre? Aspettate la scena finale e vedrete. Mammà!
Vietato ai minori di 14 anni. Se superate, come credo, questo ostacolo censorio, correte a vederlo.
Autore: Alessandro Chetta