Alla ricerca di nuove sfide per stimolare una vena creativa magari a secco, il gruppo del Mid West americano capitanato da Daniel Burton s’inventa ‘Offshore’, disco di 38 minuti contenente un’unica lunga composizione snodata lungo 6 pezzi saldati tra loro senza soluzioni di continuità.
Gli Early Day Miners suonano folk rock psichedelico, e sono al loro quarto disco; amano le tonalità oscure e lente che poi si aprono in lunghi ed enfatici squarci di luce guidati da suoni pastosi, sporchi e magmatici delle chitarre elettriche, nonchè da percussioni marziali quasi pinkfloydiane. La loro musica è ottimamente sintetizzata, a livello visivo, dall’immagine di copertina di questo album, e non può essere un caso.
‘Offshore’ però non riesce a convincere, e rappresenta il primo passo falso nella produzione degli EDM.
Si parte con uno strumentale di 9 minuti davvero coinvolgente intitolato ‘Land of Palesaints’, posto opportunamente in apertura di disco ed in grado di sintetizzare l’intera opera del collettivo (su questo disco suonano in 15) con una esibizione di numerose soluzioni sonore – slide, armonica, fuzz, feedback, echi, loops, arpeggi, archi – ben padroneggiate, alla pari di colleghi più illustri quali Lambchop, Sparklehorse, Wilco, Tindersticks o meno illustri quali i giovani Black Mountain, Tellaro e Tanakh; ma poi ‘Offshore’ continua stancamente e senza grossi sussulti.
Le tre canzoni cantate che seguono, lì nel mezzo, con testi un po’ avvilenti che narrano di spazi aperti e tempeste imminenti, e la poco coinvolgente voce maschile di Daniel Burton e quella femminile assai migliore di Amber Webber non fanno fare salti sulla sedia per l’emozione, mentre i due (troppo) lunghi strumentali in coda al disco sembrano improvvisazioni sul tema della già citata ‘Palesaints’, ma l’effetto sorpresa non c’è più.
Ad Ottobre gli EDM continuano ad attraversare in tour gli USA con i Wilco.
Autore: Fausto Turi