Quando ho letto il titolo del nuovo disco a firma Nick Cave & The Bad Seeds ho istintivamente pensato a quel capolavoro della letteratura che è “Lord Of The Flies” di William Golding e ho sperato che “Wild God” ([Pias]) fosse mosso da una forza ancestrale e pagana e che scacciasse via, con sciamanica magia, le ombre che da tempo avevano iniziato a oscurare ai miei occhi la totemica figura di Nick Cave.
Negli ultimi anni, Cave ha, difatti, sempre più assunto il ruolo di “icona”, soprattutto per un emergente pubblico “alternativo” che ha visto il lui il “vate” capace di codificare un nuovo linguaggio musicale “colto”: ciò anche oltre i suoi effettivi (recenti) meriti. Ero, quindi, in attesa di un qualcosa che invertisse la rotta, con un ritorno al Cave che ha contribuito a fare la storia della musica.
Resta salda, infatti, l’incontrovertibile evidenza che Nick Cave sia uno di quegli artisti che devono essere necessariamente “propri” di chiunque ami la musica (e per fugare eventuali equivoci preciso da subito che è tra i miei musicisti preferiti) avendo caratterizzato e definito, con la sua scrittura, uno stile ed avendo effettivamente codificato, nel corso della sua carriera, precipui linguaggi musicali; insieme a James George Thirlwell, è stato sicuramente il più ispirato musicista australiano di sempre (non me ne vogliano i fan degli AC/DC).
- Dai The Birthday Party ai The Bad Seeds: la genesi di un artista
Congedati i The Birthday Party (in cui militava anche Mick Harvey), con i quali aveva dato alle stampe lo splendido “Prayers On Fire” (del 1981), esatta fusione e rielaborazione di quanto fino ad allora espresso dai vari The Pop Group (di “Y”), The Fall (di “Live at the Witch Trials”), Pere Ubu (di “The Modern Dance”), Gang Of Four (di “Entertainment!”), Public Image Ltd (di “Metal Box”) e dalla No Wave di “No New York” dei Contortions, dei Teenage Jesus And The Jerks, dei Mars e dei DNA… (brani quali “Zoo Music Girl”, “Cry”, “Capers”, “Nick the Stripper”, “King Ink”, “Yard” … ne sono un fulgido esempio), Cave fondò i The Bad Seeds, una delle formazioni tra le più importanti del proprio tempo.
Con i The Bad Seeds, Nick Cave si fa uomo e s’incarna nel predicatore di un credo che sublima in arte il blues viscerale e destrutturato, unendolo con gli umori urbani, decadenti, industriali e violenti della sua contemporaneità, con l’irruenza selvaggia del punk, con le correnti “wave”, con la sperimentazione della scuola tedesca e con la teatralità.
I The Bad Seeds, con il già citato Mick Harvey, quel genio di Blixa Bargeld (preso in prestito dai monumentali e fondamentali Einstürzende Neubauten), Barry Adamson, Hugo Race e Anita Lane, nel 1984 inaugurarono un’era con il memorabile “From Her To Eternity” (oltre al brano eponimo, “Avalanche” di Leonard Cohen, “Cabin Fever!”, “Well of Misery”, “Saint Huck”, “Wings off Flies” – in cui compare anche Jim Thirlwell – e “A Box for Black Paul” compongono un disco perfetto), al contempo punto di partenza (primo LP di Cave con i The Bad Seeds), punto d’arrivo (poiché irreplicabile) e nuovamente punto di partenza (poiché inizio di un percorso artistico che raggiungerà nel tempo “differenti” e ancor più alte vette).
C’è stato un periodo della mia vita, sul finire dell’adolescenza, in cui mi appassionai al cinema tedesco (ancora oggi Rainer Werner Fassbinder resta tra i miei registi preferiti: “Die Bitteren Tränen Der Petra Von Kant”, “In Einem Jahr Mit 13 Monden”, “Querelle”…) e con stupore mi accorsi di come alcune di quelle pellicole fossero legate a una certa musica che amavo (per tutte “Aguirre, Der Zorn Gottes” di Werner Herzog con musiche di Florian Fricke dei Popol Vuh: imprescindibili i loro “In Den Gärten Pharaos” e “Hosianna Mantra”; Fricke collaborerà a lungo con Herzog); è così, mentre vedevo “Der Himmel Über Berlin” di Wim Wenders, entrando con Damiel in un locale underground della Berlino degli anni ottanta, ecco che, per la mia gioia, appaiono Nick Cave & The Bad Seeds che eseguono la (non a caso) circense “The Carny” (da “Your Funeral… My Trial”) “From Her to Eternity” (il brano dei The Bad Seeds a cui resto più affezionato e che continua ad emozionarmi ogni volta come al primo ascolto).
- Da “From Her to Eternity” a “The Good Son”: l’apice creativo
Ed proprio dall’LP “From Her to Eternity” si può tracciare un’ideale linea che giunge fino a “The Good Son” del 1990, segmento che custodisce tutta la migliore produzione di Nick Cave; quello che verrà poi, anche se in taluni casi di alto livello, non sarà mai paragonabile a quanto pubblicato nei sei anni in questione né da Cave con i The Bad Seeds, né con i suoi progetti solisti e/o paralleli, né con le tante (troppe) colonne sonore (che meriterebbero un approfondimento particolareggiato).
A “From Her to Eternity” sono, infatti, seguiti gli eccellenti “The Firstborn Is Dead” del 1985 (da ricordare “Tupelo”, “Wanted Man” di Bob Dylan, “Blind Lemon Jefferson” …) e “Your Funeral… My Trial” del 1986 (oltre alla citata “The Carny” da menzionare “Your Funeral… My Trial”, “Stranger Than Kindness”, “Jack’s Shadow” … ), entrambi “viatico” per l’eccelso “Tender Prey” del 1988 (esatto in ogni brano), opera in cui il suono si “purifica” nella sua stessa dannazione e trova un unico infernale equilibrio che diventa “perfezione” sacrale ed epica in “The Good Son” del 1990 (quest’ultimo il punto più alto della sua produzione, per nove momenti d’ascolto senza momenti deboli, e oggettivamente tra i più bei dischi di sempre, sebbene lo scrivente prediliga di più, per un gusto personale, “Tender Prey” e “From Her to Eternity” in ragione della loro più istintiva e meno “ragionata” essenza); del 1986 anche “Kicking Against The Pricks”, secondaria rilettura di brani altrui tra cui compaiono anche “Hey Joe”, “The Singer”, “All Tomorrow’s Parties”, “Something’s Gotten Hold of My Heart”.
Quanto composto da Nick Cave e dai The Bad Seeds con “Tender Prey” e “The Good Son”, per evocato, intenzione, tensione e qualità, è paragonabile solo a “Rain Dogs” di Tom Waits, a “Monster Walks The Winter Lake” di David Thomas e a “Nail” di Foetus (o meglio Scraping Foetus Off the Wheel, progetto del già citato James George Thirlwell) che li hanno preceduti di pochi anni.
- Dal 1992 al 2007: il canto del cigno
Nei trentaquattro anni che separano “The Good Son” da “Wild God”, Cave, artefice di una (troppo) copiosa discografia, come detto ha comunque mantenuto quasi sempre un buon livello di scrittura.
Spesso ha replicato quanto già in parte fatto, come nel riuscito “Henry’s Dream” del 1992 (travolgente “Papa Won’t Leave You, Henry”, rabbiosa “I Had a Dream, Joe”, e ancora “Brother, My Cup Is Empty”, “Straight to You”, “Jack the Ripper” … ) o in “Let Love In” del 1994, meno convincente del suo predecessore, e in cui, malgrado le belle “Do You Love Me?”, “I Let Love In”, “Red Right Hand” (di grande spessore), “Thirsty Dog”, “Loverman” …, per collocazione cronologica di pubblicazione iniziano ad affiorare i primi segni di cedimento, incrinature che saliranno nel tempo in superficie, così come emergenti e “boccheggianti” nel Giano bifronte “Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus” del 2004 (da ricordare la riuscita “O Children” e “There She Goes, My Beautiful World” con il London Community Gospel Choir presente alle registrazioni); del periodo 2003/2004 anche le registrazioni dal vivo che andranno a comporre “The Abattoir Blues Tour” pubblicato nel 2007, secondo live dopo “Live Seeds” del 1993 contenete invece registrazioni dal vivo effettuate nel 1992 e nel 1993, quest’ultimo una sorta di “best of” di quanto sino a quel momento prodotto in studio per delle esecuzioni però in cui è più presente il valore filologico che un furore estemporaneo come invece ci sarebbe aspettato.
Tra i live figurano anche quelli titolati “Live at the Royal Albert Hall”, uno del 2008, contenente registrazioni del 19 e 20 maggio 1997, ma soprattutto, di particolare interesse, uno contenente registrazioni del 3 maggio 2015, “gemello eterozigota” di “Live at Hammersmith Apollo” registrato il 2 maggio 2015; da citare poi il sentito “Distant Sky: Live in Copenhagen” registrato dal vivo nell’ottobre del 2017 con Else Torp alla voce in “Distant Sky” (come su “Skeleton Tree”), una “From Her to Eternity” ispirata, una anche “chitarristica” e “piena” “The Mercy Seat” e in apertura “Jubilee Street”).
Altre volte Cave si rinchiuderà in uno scuro romanticismo intimo e diretto, come nel buon “Murder Ballads” del 1996 (celebre per i duetti in “Henry Lee” con PJ Harvey e in “Where the Wild Roses Grow” con Kylie Minogue e con esse da ricordare “Song of Joy”, “Stagger Lee”… ), o si mostrerà accomodante e accondiscendente come nel meno compiuto “The Boatman’s Call” del 1997, disco che però presenta il miglior Cave commerciale (come dimostrano “Into My Arms”, “People Ain’t No Good” – perfetta in “Shrek 2”, “(Are You) the One That I’ve Been Waiting For?”, “Idiot Prayer”, “Lime Tree Arbour”…).
Ed ancora, si bagnerà nuovamente di rinnovata ispirazione come in “No More Shall We Part” del 2001 (da menzionare “As I Sat Sadly by Her Side”, “And No More Shall We Part”, “Hallelujah”, “Fifteen Feet of Pure White Snow”, “God Is in the House”… ), per poi “asciugarsi” come nel meno brillante “Nocturama” del 2003.
Tornerà, poi, ad imporsi, rievocando le abrasioni e un’immediatezza passata, come nell’ottimo esplosivo esordio omonimo del 2007 del progetto Grinderman (da ricordare “Get It On”, “No Pussy Blues”, “Depth Charge Ethel”, “Honey Bee (Let’s Fly To Mars)” – con tanto di “bzz” in stile “Human Fly” dei The Cramps -, “Love Bomb”…; il successivo “Grinderman 2” non eguaglierà l’omonimo (da citare comunque “Mickey Mouse and the Goodbye Man” – con tanto di ululato che mi ha ricordato l’eccezionale “Howl” dei Pere Ubu, “Worm Tamer”, “Bellringer Blues”, “Evil”, “Palaces Of Montezuma” …) mentre utile (solo) ad arricchire la discografia l’operazione di remix del 2012 (che vedrà una “Super Heathen Child” con Robert Fripp alla chitarra, mostrerà possibili altre vesti di alcuni brani come per “Mickey Bloody Mouse” ma deluderà quando l’elettronica sarà in “eccesso” come ad esempio in “Evil (Silver Alert Remix)”) .
Nel 2005 verrà pubblicato anche “B-Sides & Rarities” al quale seguirà nel 2021 “B-Sides & Rarities Part II”; nel primo volume tra l’altro versioni acustiche di “The Mercy Seat”, di “Jack the Ripper”, di “Deanna”, una “Where the Wild Roses Grow” con la voce di Blixia Bargeld…, mentre nel secondo spicca “Push the Sky Away” in versione live con la Melbourne Symphony Orchestra.
I dischi successivi al 2007, sebbene apportanti spesso rilevanti cambiamenti alla musica, faranno un passo indietro: se quindi l’ultimo sussulto degno di vera nota con i The Bad Seeds è il citato “No More Shall We Part” del 2001, “Grinderman” a firma Grinderman segna il canto del cigno di Cave.
- Dal 2007 a “Wilde God”
Meno convincente è, infatti, il Cave post 2007, sia quando cerca di restare ancorato al “rock” con il discutibile contaminato “Dig, Lazarus, Dig!!!” del 2008, sia quando, trascorso un lustro, vira verso un impalpabile anonimato come in “Push the Sky Away” del 2013 (da citare comunque quantomeno “Higgs Boson Blues” e “Jubilee Street” destinata a diventare un classico).
Parimenti non compiuto è il Cave che si piega su se stesso (ve detto che nel luglio del 2015, Cave subirà il terribile lutto della morte prematura del figlio quindicenne Arthur) e percorre le vie “novelle” di una sperimentazione che, sebbene meritoria in termini di rinnovamento, “errando” predilige i solchi del pensiero e dell’anima, come ben testimonia “Skeleton Tree” del 2016, o quelli della “spiritualità” a quelli della “dannazione” come nell’edulcorata “passione” delle pur forti presenti tensioni emotive di “Ghosteen” del 2019 (disco questo che già all’alba della sua uscita non aveva pienamente convinto – e che continua a non convincere – lo scrivente come osservato qui),
Se troppo evanescente appare il Cave di “Seven Psalms” del 2022, è invece isolato nella pacata “rassegnazione” del solo pianoforte e voce di “Idiot Prayer: Nick Cave Alone At Alexandra Palace” (concert film e live album del 2020); quest’ultimo lavoro, in ogni caso, si lascia ascoltare e conserva comunque un personale, particolare e innegabile fascino dato proprio dall’essenzialità e dalla rilettura di alcuni brani storici della sua carriera (“The Mercy Seat”, “Stranger Than Kindness”, “Jubilee Street”, “Palaces of Montezuma”… per tutti), oltre a dimostrare come una formula più vicina al “classico” Nick Cave risulti più funzionale (ad esempio “Girl In Amber” è qui sicuramente superiore a quella contenuta in “Skeleton Tree” così come è intensa ed elegiaca “Waiting for You”, qui fortunatamente liberata delle “sottostrutture” d’accompagnamento della versione su “Ghosteen”, al pari della riuscita “Galleon Ship” anch’essa preferibile a quella di “Ghosteen”).
Celebre, poi, è la lunga collaborazione con Warren Ellis (anche egli australiano presente nei The Bad Seeds e nei Grinderman) dei Dirty Three (con i quali Ellis ha dato alle stampe lo storico “Ocean Songs”) connubio che però, a dispetto dei nomi altisonanti, evidenzia come la somma di due “numeri positivi” possa anche sottrarre anziché aggiungere: non mi hanno mai esaltato le produzioni a nome del “duo” o quando Ellis emerge prepotente dal “gruppo”. È come se avvertissi che in esse non si fosse mai creata un’effettiva funzionale sintesi tra le loro personalità e che mal si sposano le ambientazioni della musica (soprattutto quando inclini all’elettronica) allo spoken della voce (anche in lavori che lasciavano intravedere idee – seppur in nuce – come “Carnage” del 2021, ma con un “arrangiamento” che non dà giustizia – si pensi alla stessa “Canage” – o che si perde in insensati “collage” di generi come in “White Elephant”); risultato ottenuto, invece, con successo solo in taluni casi (per tutti in “Hallelujah” da “No More Shall We Part”, disco in cui un Ellis formato Dirty Three si distingue e in cui ben riesce o nella splendida versione live di “The Mercy Seat” da “Live from KCRW” del 2013 con i The Bad Seeds).
A Cave va dato però il merito di essersi più e più volte messo in gioco e di aver parlato, nel tempo, al netto di ogni “critica” e giudizio o gusto individuale, linguaggi diversificati con personalità e con sincerità.
- “Wild God”
Ed ecco, così, giunti a “Wild God”, per un “dio” che non ha suonato “selvaggio” come avrebbe dovuto sin dalle deludenti premesse.
Il brano eponimo “Wild God”, uscito anche come singolo in anticipazione del disco, avrebbe trovato più consona collocazione nell’ultima (seppur ottima) fatica discografica di Mark Knopfler più che in un disco dei The Bad Seeds; a nulla è poi servito il cambio di registro a tinte gospel per un momento d’ascolto che ha tradito le aspettative.
Parimenti non entusiasmanti gli ulteriori successivi due singoli.
Se “Frogs” paluda su sonorità indie di fine anni ottanta/primi anni novanta vicine a un certo “ovattante” shoegaze, “Long Dark Night” è radiofonica (scura natalizia) ballata distante però dal Cave più “mainstream” e a suo modo, nello scopo, esatto di “Into My Arms”, “Man In The Moon” …, dal Cave altrettanto “radiofonico” dei famosi duetti con PJ Harvey in “Henry Lee” e Kylie Minogue in “Where the Wild Roses Grow” o dal Cave dell’ultimo periodo capace ancora di sussulti come con “Jubilee Street”.
“Song of the Lake” (che apre il disco) è “orchestrale” sospeso tra spoken, cantato e cori … un brano che resta teso senza però giungere a risoluzione.
Mentre “Joy” appare essere più vicina a una colonna sonora qui prestata a sfondo per le parole di Cave, “Final Rescue Attempt” si perde in un arpeggio già sentito oltre a soffrire anche essa di un’incapacità ad aprirsi verso più interessanti visioni.
“Conversion”, dopo un inizio narrativo e notturno, muta in cori e cantato/parlato che personalmente perplimono per il piglio quasi da musical.
Soporifera è “Cinnamon Horses”, affogata nelle orchestrazioni anche in tale circostanza troppo da colonna sonora.
“O Wow O Wow (How Wonderful She Is)” vive nell’anonimato con incursioni di “elettronica” e voce fuori campo démodé.
Chiude “As the Waters Cover the Sea” (anche essa sonnolente, impalpabile e con ostinati cori “da chiesa”) “Wild God” che purtroppo conferma (almeno per il sottoscritto) la parabola discendente che Nick Cave da tempo sta percorrendo, per un disco che, rispetto ad alcuni lavori precedenti quali “Skeleton Tree”, “Ghosteen” o “Seven Psalms”, non può vantare nemmeno un’intenzione alla sperimentazione e al cambiamento, apparendo più come una sbiadita rielaborazione di sentimenti già vissuti.
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