A Julia Holter piace giocare col mistero. Si potrebbero perdere le ore ad ascoltare le fascinose composizioni di Loud city long, terzo grado d’impegno che mostra in auge la compositrice losangelina. Il sophomore di Ekstasis dissipava ogni indugio sulle forme e indicava già una mezza via, su cui poter ridiscutere la contemporaneità, dove il colore astratto assorbiva la gran parte delle strutture.
Quest’ultimo lavoro pubblicato dalla Domino è ispirato a Gigi di Colette. É un bel lavoro, non c’è dubbio! pieno di spunti e di rielaborazione, di passione e cultura. Personalmente adoro autrici del genere che sfruttano un’abilità impressionante per regalarci null’altro che spazio. Spazio per scrivere di loro, spazio per imbrattare carta, spazio per capirci e discutere su non si sa bene cosa ed è assolutamente divertente leggere su di loro tutto e il contrario di tutto. In fondo, provocazioni a parte, la palingenesi della musica contemporanea, in cui magari in futuro la nostra vorrebbe riservarsi un posticino dietro ad una Meredith Monk, è stata per tutto il secolo trascorso un trait d’union con l’estetica e la filosofia musicale, per una sottile linea di demarcazione che spesso ha reso complicato capire chi facesse cosa.
Nonostante tutto, la storia ha preceduto le idee dei suoi attori. Schoenberg è testimone della prima guerra mondiale, Stockhausen, Henze e Berio ne furono protagonisti nella seconda.
Tutti caricarono fino all’inverosimile le loro opere dell’idea tremenda di caducità e di banalità del male. Il crollo delle ideologie dominanti, che hanno segnato la cosiddetta guerra fredda, ha fatto breccia sulle tele sonore di un Murcof o di un Arthur Russell che nell’urgenza di un prisma tra ciò che è spurio e ciò che riecheggia nella cristallina realtà di un mattino, possono anche loro ritenersi figli del tempo più complesso.
La Holter vuole farci credere di giocare su questi binari provocando frammenti retrò e incursioni nella partitura colta. Non credete in chi ritiene che dietro la singola semifrase ci debba per forza di cose essere un significato. A mio parere in questo Loud city long, dove belle epoque, storiche avanguardie di New York, hype californiano, concretismo, si incontrano senza problemi, è il gioco e il mistero la chiave di tutto, come l’amore verso l’innodica adamsiana o magari l’art rock racchiusi pregevolmente in una canzone come Horns Surrounding Me.
Per il jazz o magari per il vaudeville di World e di In the green wild, per Bach o forse per la coralità di Hello stranger che vira su una calda cosmogonia, per Cage o forse per Chopin di He’s Running Through My Eyes, per il sincopato o per il glitch di This Is a True Heart che ci lega ad una forte sensualità o per il vento dolente e dodecafonico di City Appearing. È il tempo a smarcare le periodiche inclinazioni, il riciclo delle mode, la somiglianza tra le note. È il tempo che darà la giusta cera ad un album splendido e purificatore come Loud city long.
Altro discorso riguarda lo spazio, poco identificato o meglio, spesso falsificato, che solo chi ascolta può riempire certo, ma che non si ha sempre il dovere di fare. Una piattaforma senza perimetro in cui riecheggiano magari le note di Celebration, brano magnifico della Holter presente in Tragedy, suo album d’esordio. Uno spazio dove è solo la fisicità del pavimento a dettare semmai una legge, dove chi ascolta tenta di giustificare se stesso al cospetto delle regole naturali e non di quelle da lui stesso create. Forse proprio in questo risiede la diffidenza nel credere in “un oceano che sta tornando verso i cieli”.
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autore: Christian Panzano