Ha fatto proprio bene Dez Fafara a scogliere i Coal Chamber!
Bollati dall’inizio come fratelli poveri dei Korn (… non che facessero molto per evitarlo) non hanno mai costituito una reale minaccia sonora per le nostre orecchie, troppo prevedibili, troppo prodotti, troppo pubblicizzati….Troppo.
Il nostro Dez ha deciso di ritornare alle “roots bloody roots”, castrando completamente l’elemento visivo (se non nell’accuratezza della cover e del booklet) e riscoprendo il suo mai sopito amore per il death e l’heavy metal più classico ed è proprio da quest’ultimo stile che si deve partire per poter comprendere al meglio l’evoluzione dei Devildriver.
Entusiasmante è l’aggettivo giusto per descrivere il secondo capitolo dei cinque americani: rispetto alla prima uscita è stata amplificata la componente melodica nelle composizioni, sin dal primo pezzo “End of the line” veniamo inondati da una cascata di potenza, precisione ed intensità (di questi tempi merce rara), un vero wall of sound al quale fanno da contraltare linee di chitarra solista armoniche e mai scontate.
Azzeccata poi la scelta della tracklist, si potrebbe pensare di trovarsi di fronte ad un concept album tale è l’ omogeneità ed la razionalità nella successione delle tracce.
E’ una violenza sonora mai fine a se stessa quella che ci viene data in pasto, richiami lontani ai Black Sabbath più cupi si scorgono in “Sin and Sacrifice” una delle più belle canzoni mai ascoltate dal vostro scribacchino di fiducia nell’anno in corso come ritroviamo echi degli Slayer più hardcore in “Bear witness Onto”.
La vetta dell’album e’ rappresentata dalla tripletta “Driving down the darkness” “Grinfucked” “Hold back the day” (che ricorda il miglior King Diamond) con le quali tra break devastanti, cambi repentini si viene risucchiati in una spirale sonora .
Dez Fanfara è il vero cerimoniere di “The fury of our maker’s hand”, mai fuori posto, alterna growl, urla, voci filtrate anche se sinceramente avrei azzardato qualche passaggio in tonalità pulita, speriamo sia la prossima frontiera del singer.
Ultima citazione alla produzione ad opera di quel fenomeno dei bottoni chiamato Colin Richardson, semplicemente perfetta nel dare spazio al groove dei singoli pezzi non penalizzando la pulizia dei passaggi ritmici e l’interazione tra i vari strumenti (ascoltare in un cuffia la title track per credere!)
Un disco da avere…non importa come!
Autore: Alessio “Blemish” Minoia