L’assolo di “I’ll never belong here” , il brano che riprendendo musicalmente i vecchi Smashing Pumpkins apre l’album dei Mary’s Jail, è stupefacente. Un suono distorto che bypassato attraverso un uso sapiente del delay si riproduce incartandosi su se stesso con un leggerissimo ritardo sul tempo di base del pezzo. “A Perfect State of Nervousness”, invece, ripercorre le furibonde corse in autostrada a 180 Kmh dei Placebo. Un imponente impianto sonoro che sembra scivolare via senza troppe sorprese. Ma con “Bitter sweet” ( la quinta traccia) la storia cambia. Lo stile dei MsJ si delinea. E’ il pezzo più lungo dell’album. Una pioggia di meteoriti che si infrangono nell’oceano. Flanger estremi e la disperazione di una voce che sembra liberarsi sempre di più acuto dopo acuto.
“Secret Garden”, forse il pezzo più bello del disco, sicuramente il più rappresentativo della band, elimina il confine (che chissà se esiste) tra Rock e Post-Rock. “Last Goodby” è commovente. Riesce a rendere in maniera così nitida l’idea di una separazione che un regista cinematografico non esiterebbe un solo instante a sceglierla come colonna sonora per il suo ultimo film intorno ad un amore che va a finire male. Possiamo dire che l’album finisce qua perché i melanconici arpeggi acustici di “Sond Eleven” sono i titoli di coda di un album scritto e diretto (proprio come un film) da Christian Strain, ma condotto ad un livello altissimo dalla bravura di una band come i Mary’s Jail. E’ bellissimo il fatto che Song Eleven finisca con una serie di rumori imprecisati che si schiariscono sul finale, quando diventa netto il suoni di passi che si allontano e che confluiscono in una porte che si sbatte.
Autore: Stefano Ferraro