Sono più di 10 anni che il buon Simon Joyner è attivo sul mercato discografico; eppure, il suo nome non è di quelli che ho mentalmente catalogato sotto l’etichetta “to check”. E’ con sincera curiosità, dunque, che infilo il CD dove va infilato, ruoto la manopola che va ruotata e mi stendo dove mi stendo di solito… e rimango lì fisso, ad ascoltare quello che per contratto devo ascoltare. Ovvero, a tutto concedere, un pessimo disco di Bob Dylan, ovvero uno degli ultimi 15. Uno di quelli, cioè, dove il menestrello non ne imbrocca una, dove si limita a rifare la stesso pezzo over and over, che poi sarebbe lo stesso pezzo che faceva nel CD precedente. Uno di quelli, in definitiva, che ti fanno chiedere perché certi personaggi, dato quello che dovevano dare, e qui si tratta sicuramente di cose di eccelso livello, non si ritirino in solitudine, ma tentino in tutti i modi di farci ricordare che il genio umano, ecco, ha un limite anche lui.
Solo che Simon Joyner, che evidentemente avrebbe fatto un altro mestiere se un giorno non avesse acceso la radio ed ascoltato il suddetto genio, quello che doveva dare è questo pezzo di similplastica bianco e nero che mi rigiro fra le mani, e questo la dice tutta. E allora, qualche notarella, cercando di mantenermi il più possibile aderente alla realtà. La prima: anni e anni di attività discografica hanno stroncato qualsiasi espressione di vitalità di Joyner che, palesemente, a suonare non si diverte più. Gli 8 pezzi hanno tutti la stessa cadenza, la medesima, insopportabile struttura, che vorrebbero farci credere sia cosa? Country? Folk? So solo che in 50 minuti un virtuale elettrocardiogramma non potrebbe che segnare, mestamente, calma piatta.
La seconda: non c’è una invenzione che sia una, non dico un colpo di genio, perché siamo realisti, ma neanche un’ideuzza che mi faccia alzare un sopracciglio con espressione compiaciuta. Come se non bastasse, la sua voce è stanca, strascicata, senza gioia, ecco. Come si fa, mi chiedo, ad ascoltare un album che non piace al suo stesso autore? Derivativo a dir poco, lento e, mi spiace dirlo, anche un po’ inutile, con “Lost with the Lights On” Joyner ha solo rimpolpato la categoria degli imitatori degli imitatori, senza che se ne sentisse il minimo bisogno. In rete troverete professioni di fede per questo giovanotto un po’ spelacchiato, ma, credete a me, non ne vale la pena. Su tutti gli amanti di sua bobbità grava un preciso obbligo morale: andarsi a riascoltare “Blonde on Blonde”. Su tutti gli altri, quello di evitare Simon Joyner.
Autore: Andrea Romito