Tra i vari ospiti della 24esima edizione della rassegna Malati di Niente di Jesi abbiamo incontrato e intervistato Marino Severini, frontman della band “Gang”, che ha presentato il suo libro “Quel giorno Dio era malato”. Un progetto editoriale condito da alcune delle più belle e celebri canzoni dei Gang tra battute, risate, aneddoti e ricordi di battaglie politiche. Particolarmente attivo in questo periodo Marino perché, oltre al suo libro che sta presentando in giro per l’Italia, ha anche collaborato, insieme al fratello Sandro (l’altra metà dei Gang) e a Lorenzo Lerry Arabia, Gianluca Morozzi e Oderso Rubini, alla scrittura di “Allea barricate! Il libretto rosso dei Gang”; senza dimenticarci di aver dato alle stampe il nuovo album “Fra silenzi e spari” (leggi la recensione).
“Quel giorno Dio era malato” è una sorta di ‘ritorno a casa’ che ha il valore epico dell’Odissea e del “Bringing it all back home” di dylaniana memoria. Nel libro Marino si è dilettato a raccontare e a spiegare come sono nate, in maniera trasversale, molte delle canzoni più significative della sua band. Insieme ai testi, nel libro, ci trovate i Qr code che rimandano ai video delle canzoni facendolo diventare un “libro da ascoltare”.
Marino non è soltanto un ottimo musicista ma anche un cantautore che ha scritto alcune delle canzoni più importanti del folk italiano, che sono entrate nella tradizione della musica popolare e rock. E’ dunque una figura intellettuale di riferimento per moltissime persone e in questo lavoro letterario, come nelle sue canzoni, vengono riletti e rivistati alcuni aspetti del rock, tra citazioni ai Clash e Springsteen, ma anche i grandi intellettuali come Gramsci e Fanon.
Sono dell’avviso che il successo dei Gang degli anni ‘90 sia stato fondamentale non soltanto per il rock italiano, ma anche per la vostra città Filottrano, in provincia di Ancona. La Gang è stata un’innovazione per il territorio e in seguito sono nate tante cose importanti nel tuo paese. Per cui, ritengo, il tuo gruppo fondamentale per la salute mentale di un paese intero.
Filottrano ha una storia comune a tante altre realtà italiane che nel tempo hanno dovuto coniugare il lavoro in agricoltura con lo sviluppo industriale. C’è stato in parte lo sradicamento dalle campagne, per cui si è perso il senso dell’appartenenza perché le istituzioni e gli industriali hanno lavorato male e la comunità è stata lasciata a se stessa.
Venendo alla musica e alle tue radici: qual è stato l’impatto di Joe Strummer su te e tuo fratello?
Quando ho visto la prima volta i Clash in concerto avevo già 25 anni e avvenne nello storico concerto di Bologna in Piazza Maggiore. L’impatto che hanno avuto su di me, lo racconto anche nel libro, ci cambiò la vita. Ci siamo detti “se po’ fa! Se ce la fanno loro ce la possiamo fare anche noi”! Di fatto siamo partiti dagli anni ’70, dalla campagna abbiamo sempre avuto un qualcosa di rurale. Viaggiavamo sempre con l’autostop e con la corriera. Tuttavia, il concerto dei Clash è stato tra i più brutti della vita nostra, per il caos che c’è stato quel giorno. Noi venivamo dagli anni di piombo ma in quel periodo era finito tutto, non sapevamo quello che stavamo cercando finché non ci siamo andati a sbattere contro. Intanto le generazioni stavano cambiando e con esse il linguaggio, per cui grazie ai Clash abbiamo capito che potevamo utilizzare un altro linguaggio che passasse attraverso le chitarre elettriche, basso e batteria. Fu l’avvento del punk rock!
Erano gli anni in cui oltre ai Clash, c’erano Ramones e Sex Pistols.
I Ramones l’avevamo già visti, ma non avevamo avuto quell’impatto emotivo.
A pagina 12 del libro usi una bellissima metafora tra ciò che fu la fine di Troia e l’esplosione del punk, paragonando i Clash ad Enea. Chi è l’Anchise che i Clash si sono caricati sulle spalle?
Si, ho visto un po’ i Clash come Enea. I Clash ci colpirono molto perché con loro c’era un recupero delle radici, soprattutto per quello che riguarda la cultura del ‘900, e il rock‘n’roll inteso come la più grande cultura popolare del ‘900. Loro sono andati indietro nel tempo ricucendo i frammenti di una società con un filo nuovo; erano loro i portatori della rivolta a quello che era il nuovo ordine mondiale stabilito dalla Thatcher. La politica prima di capirlo ci ha messo parecchio, invece il punk inglese rispose subito anticipando tutti. Con il punk e con i Clash rinacque il rock‘n’roll, come voce della strada e utile a veicolare messaggi. Strummer, con il suo linguaggio, disse che le grandi rivoluzioni cominciano quando gli intellettuali si mettono insieme ai ragazzi di strada, questo è un concetto antico. Si torna alla comunicazione, a un sapere completo, e questo nasce grazie alla strada e alle sub-culture. Personalmente, guardando l’oggi, penso che noi veniamo educati in una scuola che dovrebbe essere distrutta dalle fondamenta, perché crea una marea di schizofrenici senza fare cultura.
I Clash da “London calling” in poi hanno introdotto nel loro sound i ritmi caraibici (reggae e dub soprattutto) facendo emergere quelle che nell’Inghilterra di allora erano le sub-culture.
L’occidente come capitale del rock finisce con loro, perché si apre al villaggio globale, lo vedremo anche con Strummer e le sue avventure soliste, imbevute di culture etniche.
A un certo punto, nel libro, dici che vorresti che si tornasse alla voce di Woody Guthrie, che è stato il padre spirituale anche di Dylan. Non pensi che quella voce sia oggi composta da te e tuo fratello, dalla Banda Bassotti, da Guccini, da Giorgio Canali, Steve Earle, John Mellencamp; vale a dire da tutto questo filone del cantautorato rock?
Non lo so, è troppo presto per dirlo. Noi siamo consapevoli che i Gang fanno canzoni che contengono anche altri linguaggi come il teatro e altre arti. Abbiamo passato l’industrializzazione e c’è stato l’accesso alla scolarizzazione di massa e infine la radio, attraverso questi elementi abbiamo avuto “l’incontro” tra le arti. Penso che fondamentalmente sia il popolo degli ultimi, degli sfruttati, ad avere la capacità di generare arte e cultura.
In tal senso per noi Dylan è un caposaldo. Guthrie invece era uno che riusciva a captare le cose e a “darle” ai lavoratori. Per noi il Rock ha questa forma, non lo pensiamo come i Vasco Rossi e i Ligabue di turno che sono delle macchiette rispetto alla profonda cultura rock. Questi non lasciano traccia in tal senso.
L’altro gruppo italiano figlio dei Clash è la Banda Bassotti. Ci parli del rapporto con la band romana?
La Banda Bassotti la conoscevamo perché molti di loro erano lavoratori della cooperativa “25 Aprile”, andarono in Nicaragua e costruirono due scuole, e da lì piano piano sono diventati quello che sono oggi. Facemmo anche un tour insieme, agli inizi, perché a loro servivano i soldi per andare in Salvador. Loro sono molto sovietici, questo però non significa che durante gli anni non siamo diventati più che fratelli.
Quindi cosa gli avete dedicato?
Come li racconti i Bassotti? Io li ho raccontati sotto forma di una storia d’amore, con “Il paradiso non ha confini”.
Qual è il tuo rapporto con la religione?
Nel libro c’è un capitolo che dice che c’è sempre un prete in mezzo ai piedi e in una buona parte delle canzoni dei Gang c’è la religione cristiana. Se io suono la chitarra è grazie a Costantino che era il parroco del mio paese. Non c’era un soldo e convincemmo il parroco a firmare delle cambiali e ci dava anche un posto dove fare le prove (l’oratorio) quindi sin da piccoli noi abbiamo avuto questo rapporto con quel mondo. Con il passare degli anni è stato lì che ci siamo formati e ci siamo organizzati. Balducci senza dubbio c’è nelle canzoni dei Gang; quindi la tradizione cristiana per me è importante, anzi è indispensabile per qualsiasi altra forma di cultura sociale che questo paese sta cercando. Dobbiamo fare i conti con l’influenza cristiana. Io penso che con questa tradizione c’è bisogno di confrontarsi, di fare un pezzo di strada insieme. Il mondo cristiano sta lottando contro l’indifferenza e si fa con la “differenza”.
Una delle canzoni più importanti dei Gang, quanto della tradizione antifascista italiana, è “La pianura dei sette fratelli” che è molto emblematica e ha un potere pazzesco.
Questa è una di quelle canzoni che secondo me è venuta meglio, perché è riuscita a trovare altre strade di condivisione attraverso stili e culture diverse. È una storia che porta il fuoco, perché sveglia in noi il senso della comunità, della radice del vivere civile. Va al di là delle ideologie perché riesce a mettere insieme un popolo diventando una canzone popolare. Non conta chi la canta l’importante è il riveglio in chi l’ascolta, e canta, di comunità popolare. La cosa importante perché in essa convivono la tradizione cristiana e quella socialista.
In altre parole si tratta di quell’umanesimo di cui parli spesso nei concerti e nel libro. Come la mettete voi che siete partiti con le “ali del punk inglese” per poi tornare alle radici della vostra terra.
In realtà il rock e il punk sono stati relativi perché gli album di maggior successo sono stati quelli della trilogia che va da “Le radici e le ali” fino a “Una volta per sempre”. E’ vero che anche in questi lavori il punk e il rock hanno convissuto con tanto folk. Erano progetti anche tanto grandi che coinvolgevano tanti musicisti, tante esperienze diverse, tanti linguaggi.
Tra i tanti musicisti ne “Le radici e le ali” avete coinvolto anche Daniele Sepe, tanto per fare un nome.
Ma Daniele Sepe allora non era nessuno, era ancora uno giovanissimo e come lui tanti altri che poi sono cresciuti e hanno intrapreso delle belle carriere. La cosa bella è che ci siamo sempre circondati di tanti artisti che con noi facevano il progetto. Abbiamo cercato di coinvolgere tante esperienze diverse, perché nella diversità c’è la ricchezza. La nostra stagione punk appartiene soprattutto ai primi dischi cantati in inglese. Io li considero i 3 dischi dell’apprendistato. Dietro quei dischi ci sono 6 anni in cui abbiamo viaggiato, facevamo 120-130 concerti l’anno tra Sicilia e Piemonte con il Transit a 90 km all’ora. In quegli anni abbiamo incontrato tutto quello che si muoveva in Italia. Dopo sei anni ci siamo detti: “ora, che facciamo? Vogliamo prendere quello che abbiamo e formare qualcosa di nuovo?”. Ed ecco perché nasce l’album “Le radici e le ali” ma c’era bisogno dei soldi per registralo. In quel momento eravamo l’unico gruppo rock italiano a firmare per una casa discografica major (la CGD), un contratto per 10 anni che ci assicurava di poter fare tre dischi. Senza quel contratto saremmo rimasti a registrare dentro la nostra casa, anche se venivamo da 10mila e passa copie vendute autoprodotte, quindi la CGD intuì che eravamo forti con un mercato.
A questo punto sarebbe opportuno parlare del percorso con una gestione indipendente.
Abbiamo cominciato ad autoprodurci per caso, perché morì la zia di mamma che era una sarta che lasciò 250 mila lire a nostra madre che quando tornò a casa disse: “ho 250mila lire, che vi faccio per regalo?” E noi le dicemmo: “con queste 250mila ci paghiamo la prima rata per lo studio di registrazione”. A Fabriano c’era un solo studio che in realtà era ma una capanna con un tetto di ferro. Abbiamo impiegato più di un anno ad incidere il nostro disco d’esordio (“Tribe’s Union”), pensavamo che sarebbe finita poco dopo, invece da lì abbiamo cominciato a suonare in giro e la cosa sta durando da quarant’anni.
Quindi oggi siete tornati all’indipendenza?
Si, noi l’abbiamo vissuta la stagione delle case discografiche. Per poco più di dieci anni siamo stati con la CGD di Caterina Caselli. Dall’89-90 fino a quasi il 2000. Allora le case discografiche italiane erano aziendali. Io avevo un progetto e lo portavo e ci si lavoravamo tutti insieme. Loro ti fornivano tutto ciò che serviva, ma in questo tavolo avevo la visione completa e tutti aderivano lavorando insieme. Quando poi finì quella stagione passammo alla Warner Bros, che assorbì la CGD. Loro non erano un’azienda con quella filosofia ma una classica multinazionale votata al profitto. La multinazionale ti chiede di fare una porzione del processo lavorativo in tempi molto stretti, per cui quei dieci anni che ci aveva dato la CGD si ridussero a pochi mesi. Era tutto un altro modo di fare, era come mettere un artigiano in una catena di montaggio. Così li abbiamo mandati a quel paese perché avrebbero snaturato tutto il nostro modo di fare. Da lì è cominciato piano piano questo ritorno all’autoproduzione, l’unico modo che conoscevamo per fare altri dischi. Solo che dopo 40 anni noi non siamo da soli con quelle 250mila lire della zia di mamma, ma con una comunità di 1600 persone che per la quarta volta si è fatta carico della produzione dei dischi dei Gang. Col crowdfunding abbiamo racimolato 70 mila euro, cose che in Italia sono rare. Questa condizione ci permette di guardare al futuro in maniera estremamente positiva. Domani non si sa quello che può succedere ma noi non ci arrendiamo con la fine delle case discografiche.
Voi con il crowdfounding di “Sangue e cenere” avete raggiunto un traguardo considerevole.
Siamo arrivati a raccogliere nel giro di una settimana una cifra a cui nessuno credeva, ma non perché siamo i migliori, perché noi abbiamo una comunità coesa quindi per forza di cose la comunità quando è chiamata risponde, e se ne fa carico. Tutto questo è possibile grazie a un reciproco rapporto di fiducia. Nella mia vita ho avuto fiducia, noi ce la siamo giocata giorno per giorno facendo una cosa che non era precaria ma di più, noi ci siamo fidati del nostro popolo, e quindi ‘sta fiducia oggi ci viene restituita. Penso che quando ci sono le crisi, invece di aspettare che dal cielo scenda la soluzione, è meglio tirarsi su le maniche e trovare la soluzione.
Torniamo alla musica: “Sesto San Giovanni” è la vostra “Factory”, che Springsteen ha dedicato al padre che lavorava.
Tutti dicono che è una delle più belle canzoni sulla classe operaia. La cosa che abbiamo in comune Springsteen ed io è che nessuno dei due è mai entrato in una fabbrica. Io ho sempre avuto terrore, perché sapevo bene quello che c’era là dentro. Quando frequentavo le scuole medie i miei amici erano tutti a lavorare in fabbrica. Sapevo bene quello che succedeva. C’ho avuto sempre paura, però bisogna essere onesti, se uno arriva a casa e ha tempo sì e no di mangiare, le canzoni chi le fa? Quello che sta di fuori le fabbrica!
Tu hai fatto pure il fattorino, Little Steven dice che Springsteen è diventato Springsteen perché non ha mai lavorato, ha sempre suonato.
Sandro ed io abbiamo fatto per 10 anni i fattorini. Negli anni ‘90 giravano un sacco di soldi, nel senso che giravano, ma non si fermavano mai. Fuori da quel contesto lavorativo facevamo le rockstar, ma tornati a casa facevamo i fattorini. Era l’unico lavoro che avevamo trovato, dove non venivamo licenziati e ci permetteva di andare in giro a suonare. Tanto i soldi da qualche parte dovevano entrare.
In quegli anni siete stati anche al 1° Maggio a Roma e hai avuto qualche problemino con la Rai e con quelli del PSI.
Questa cosa del concerto del 1° Maggio del 1991 me l’ero pure dimenticata ma qualcuno l’ha caricata su Youtube. Quell’anno al governo c’erano i socialisti, che controllavano Rai2, su cui andò in onda lo spezzone del concerto nel quale eravamo in programma noi. Ci minacciarono di non dire nulla di scomodo che non fosse la semplice presentazione delle canzoni, invece mi preparai un discorso di dieci pagine per inneggiare alla rivolta. Ma dato il tempo a disposizione parlai molto meno di quanto avessi previsto. Tuttavia questo mio breve discorso suscitò la forte irritazione dei socialisti, al punto da essere minacciato, che mi dissero: “tu qua non ci puoi mettere più piede”, ma dopo un anno quella persona non era più in Rai.
Puoi spiegare cosa significava per tuo padre essere comunista?
Quello che lui mi ha lasciato di quella cultura era uno stile di vita, è un po’ come Noè che parlava del passato per annunciare il futuro. Io ho imparato a non lasciare da soli nessuno, uno dei principi più importanti della classe operaia. È un mondo dove insieme si potevano affrontare le grandi avversità. La sinistra degli ultimi anni si limita alla denuncia e ha perso per strada l’elemento della speranza.
L’imbracciata è un punto di partenza ma anche di ritorno…
Il ritorno ci deve essere, altrimenti sarebbe una fuga.
Leggere il tuo libro, per chi ha conosciuto la tua carriera e quella dei Gang, porta a riscoprire alcuni vosgtri aspetti importanti. Una delle cose che mi ha colpito di più è che avete scritto “Socialdemocrazia” nel 1990, un anno dopo la nascita della Lega e già avevate colto i danni che avrebbe fatto.
Noi abbiamo sempre viaggiato e toccato con mano la realtà. Le grandi fabbriche chiudevano, finiva la stagione operaia tradita da un modello economico-industriale. E succedeva in zone che fino a qualche anno prima erano ricche. Incominciava a non esserci più la sicurezza del posto fisso e così il popolo impaurito trovava rifugio politico nella Lega, e credo valga ancora oggi. Se loro e la loro politica sono il problema? No, sono la conseguenza, la patologia. Sono predatori perché il futuro non esiste in mano a questa gente. Purtroppo la sinistra ha dato le chiavi di casa agli intellettuali che parlano solamente. E allora il futuro come si costruisce? Con le nostre tradizioni e con parole che dobbiamo togliere alla destra!
La concezione di Stato-Partito ha fatto sì che succedessero queste cose ma il popolo di sinistra ha una grande ricchezza e cioè la tradizione Gramsciana. Rimettiamo in piedi le tradizioni delle minoranze, come il movimento delle donne, i migranti, le sub-culture per capire quali sono i nostri limiti. Se tu metti insieme queste 3 grandi tradizioni, finalmente ci si incontra, da lì comincia l’avvento di una nuova stagione. Questa è l’idea di futuro, e penso che la tradizione dei Gang sta ad aprire la porta del futuro. Non dobbiamo avere paura. Semplicemente è la fine di un racconto, partito qualche centinaio di anni fa con l’Illuminismo, e tutto questo corrisponde a progresso, civiltà, crescita. Una società se non sta in ogni individuo, non regge ma si impone con le armi. Dobbiamo cominciare a raccontare dell’uomo nuovo, l’uomo planetario, le moltitudini, saperle accogliere.
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