Non poteva scegliere un titolo più adatto, Appino, per questo suo Il Testamento. Con quest’album, infatti, il frontman degli Zen Circus lascia al suo pubblico quanto di più prezioso si possa trasmettere in eredità: la sua vita, il suo passato, i suoi segreti. Schiude il suo scrigno, composto da trascorsi oscuri, lacerazioni interiori, piccole aperture e contorti psicodrammi familiari, riversandoli, come in un trascendentale processo di catarsi, in suono e parole. Due facce, queste, della stessa medaglia, significante e significato perfettamente aderenti ad una forma canzone che ricorda, per ovvi motivi, la compositio stilistica del Circo Zen, in particolar modo quella di Nati per subire, piuttosto che di Andate tutti affanculo. C’è da fare un appunto su questo passaggio. Anche se inizialmente la somiglianza, almeno per quanto riguarda la forma più che per la sostanza, con le produzioni degli Zen, potrebbe far storcere il naso (ed è facile, se non istintivo, fare un paragone con Morte a Credito, de La notte dei lunghi coltelli, side project di Karim Qqru, che dallo stile degli Zen Circus pesca solo l’energia incontenibile), non bisogna limitarsi alla superficie. Scavando leggermente più a fondo, analizzando questa produzione nell’ottica dell’unicum, è logico concepire questo album come un prodotto a sé stante ma, naturalmente (non “banalmente” bensì come “secondo l’ordine naturale delle cose”), collegato a doppio nodo con ciò che porta la firma del trio toscano. Appino è gli Zen Circus, così come gli Zen Circus sono Appino, niente di più, niente di meno. La sovrapposizione semantica dei due progetti è ovvia come il passare delle stagioni o la ciclicità delle maree e se non si entra in quest’ottica diventa davvero complicato riuscire a interpretare l’universo di senso nel quale questo album galleggia e si muove, fluido come non mai ma duro come granito.
Le quattordici tracce che lo compongono, ci offrono uno spaccato esistenziale profondo, viscerale e lucidamente reale di ciò che è stato ed è Appino, dandoci chiavi di lettura nuove e, finalmente, esplicite per decodificare al meglio tutto il sistema costruito intorno al frontman degli Zen. Già dalla open track, che da anche il titolo all’album, si intende la direzione dell’intero lavoro, una biografia/presentazione, un sommario di ciò che sarà affrontato nel resto dell’album, condensabile in un paio di versi, summa del discorso complessivo de Il Testamento: “Io ho scelto esattamente tutto quel che sono/senza la scelta io la vita la abbandono/ho scelto tutto tutto tranne il mio dolore/ lo ammazzo io e non c’è niente da capire”. Segue il primo singolo rilasciato qualche giorno prima della pubblicazione dell’album, intitolato Che il lupo cattivo vegli su di te. Scelta, anch’essa, quanto mai azzeccata: in questo brano si presentano gran parte delle sonorità che saranno ritrovate nel resto delle tracce. Riff e arpeggi di chitarra quanto mai inquieti, archi, inaspettati innesti di synth e la “solita” tendenza ad esprimersi come in una cupa filastrocca, sono gli strumenti, i segni ed i tratti che Appino usa per dipingere sulla gigantesca tela dell’album, rimescolandoli ogni volta ma mantenendosi ben stretto a ciò che è il suo modo di scrivere e la sua poetica. Molto bella e ben curata anche Fuoco!, puro antipasto alla più pacata, “crunchy” ed esplicita La festa della liberazione chiaro tributo alla Desolation row di Bob Dylan. In questo brano, per la prima volta, si nota una apertura molto inaspettata sul tema religioso, più volte trattato dal frontman sia sui social network che nelle produzioni degli Zen: “E passo ore, giorni, mesi a pensare alle stelle e non guardarle mai/ ho paura di vederlo spuntare, sorridere e dire ‘Appino, che cazzo fai?’”. Il dubbio, ad ogni modo, è pur sempre uno strumento di rivelazione, di studio e di crescita. E’ il modo in cui si approfondiscono i concetti e si superano, o si confermano, le sicurezze assolute che si hanno. Proseguendo con la sognante I giorni della merla, quelli più freddi dell’anno, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo e con la più energica Schizofrenia, l’album si conclude con 1983, fotografia vintage di una periferia, non solo geografica ma anche psicologica, che termina “nel silenzio assurdo del paese nuovo”, lasciandoci sazi e soddisfatti dell’ultima ora di ascolto.
In conclusione, un bell’album le cui storie si proiettano più sul particolare che sul generale, ma che possiede la magnifica forza di potersi adattare, in parte, alle molteplici vite di chi lo ascolta ma che probabilmente, per la sua natura borderline, raccoglierà più critiche negative che pareri positivi. Ciò che avete letto appartiene al secondo gruppo.
autore: A. Alfredo ‘Alph’ Capuano