Quarantacinque anni e non sentirli: non capita di poterlo dire per tante band. I Simple Minds sono una di queste, ma possiamo dire che sono vivi e vegeti (Alive and Kicking, per dirla con le parole del loro secondo successo più famoso) perché hanno affrontato stasi e rinascite, glorie e insuccessi, trionfi e perdite.
La loro nascita è stata nei primissimi anni ’80 (anzi, fine anni ’70, come U2 e Cure) con un elettropunk totalmente underground e di nicchia di cui sono stati gli alfieri e forse i migliori interpreti dell’epoca, con buona pace degli allora nascenti Depeche Mode, con dischi come Empire and Dance e il meraviglioso Sons and Fascination, che finalmente li portò al grande pubblico con Lovesong, The American, Theme for Great Cities e altri grandi pezzi.
Poi, il trionfo con la loro seconda veste, con album elettro-rock e new wave come New Gold Dream, Sparkle in the Rain, e Once Upon a Time, e ancora con il successo mondiale del loro disco impegnato Street Fighting Years (che conteneva per intenderci Mandela Day, Belfast Child, This is Your Land e la cover di Biko).
La fase in discesa, fino alla quasi morte musicale, è stata negli anni ’90 (troppo lontani, in quel momento, dai filoni mainstream dei nineties come il grunge o l’alternative rock), con dischi certamente non di uguale valore come Real Life, il troppo sottovalutato Good News from the Next World, e i poco attraenti Neapolis, Cry, Our Secrets are the Same, e in mezzo un disco di cover poco noto come Neon Lights. In quella fase oscura, peraltro, Jim Kerr e Charlie Burchill hanno dovuto subire l’uscita di Derek Forbes e Michael MacNeil (già da Once Upon a Time per la verità) e soprattutto di Mel Gaynor, uno dei migliori batteristi in circolazione allora. E ancora la storica litigata con la Virgin, per la quale nemmeno uscì in prima battuta Our Secrets are the Same, e gli altri dischi dovettero uscire con etichette minori che certo non fecero giustizia alla qualità della band (e anche della loro musica di allora, che non scese mai sotto i livelli di decenza).
Infine, nei due decenni del 2000, la lenta rinascita e poi la quarta vita, che arriva fino all’uscita di questo Direction of the Heart, addirittura quarto per vendite nel Regno Unito: prima la ripresa, con dischi belli ma di poco successo come Black and White e Graffiti Soul, (con canzoni supersoniche come Stars will lead the Way, Black and White, Stay Visible, Moscow Underground) per arrivare a un trittico micidiale: Big Music, una raccolta di successi in acustico, Acoustic, e Walk Between Worlds.
Come sono usciti i Simple Minds dalla crisi? E’ Kerr stesso a raccontare che l’atmosfera siciliana di Taormina, dove vive tutt’oggi regolarmente, lo ha fatto tornare nel giro attraverso iniziali contatti con giovani musicisti. Fino ad arrivare alla costituzione di una nuova band, quella che si esibisce dal vivo con il duo originario dai tempi di Big Music: l’ex chitarrista ritmico dei Primevals, Gordon Goudie, Cherisse Osei alla batteria, Berenice Scott alle tastiere, Sarah Brown ai cori e Ged Grimes (ex Danny Wilson) al basso. Sono sicuramente Goudie, Ossei e Grimes ad avere dato nuova linfa vitale a Burchill e Kerr. Ma è anche vero che i due scozzesi di Glasgow non si sono mai arresi, nemmeno quando la Virgin voltava loro le spalle e gli ex membri lasciavano.
Poi hanno trovato la BMG Records, e la nuova band, fatta di talenti bravissimi e di immediato impatto col pubblico sul palco. Ed eccoli lì, felici, gloriosi ed energici, questi ormai sessantenni, che abbiamo visto festeggiare anche a Verona il 19 luglio scorso le loro più grandi hit.
I Simple Minds sono forse oggi l’unica band per cui tirar fuori i vecchi successi nei live (lo hanno fatto con ben quattro diversi album e tre relativi tour) non ha significato una operazione di puro mercato e nostalgia: mentre suonano i loro successi sul palco, scrivono ottima musica in studio.
Come è quella di Direction of the Heart, che si infila perfettamente nella scia dei precedenti due dischi di inediti Big Music e Walk Between Worlds e costituisce con loro quella che possiamo chiamare davvero la “trilogia della rinascita”.
I tre dischi suonano simili, e pieni di nuova energia, e anche di nuovo stile, sono veramente “Big Music”. Sono la cosa migliore dai tempi di Street Fighting Years, ma Direction of the Heart contiene persino qualche novità ulteriore.
Scritto ai tempi della Brexit, mentre Kerr ormai desidera solo essere cittadino italiano, il nuovo disco tenta addirittura il recupero delle atmosfere delle origini, soprattutto quelle New Wave. Tanto che viene inserita una canzone come Acts of Love, che è il loro esordio discografico assoluto, risalente al ’78 (anche Springsteen ha fatto una cosa del genere nel suo ultimo disco). E ciò che è incredibile è che non riesci a distinguere la “vetustà” di Acts of Love dalle altre canzoni del disco.
Si inizia, per la verità, non proprio col botto perché i due singoli Vision Thing (scritta per il padre morto nel 2019, come atto di riconoscenza per il fatto che ha sempre creduto nelle capacità musicali del duo) e First You Jump sono carini ma non proprio il massimo, forse anche per una linea di canto non proprio impattante di Kerr, e ricordano semmai il pop raffinato e orchestrato, non ancora rock, di Graffiti Soul e Black or White, (anche se Burchill regala in First You Jump uno dei suoi classici riff di chitarra per cui è famoso). Ma successivamente Human Traffic e Solstice Kiss ci portano all’apice del disco, con quel loro classico sound rock-epico, i cori femminili di Sarah Brown, la voce di Kerr in pieno dominio e il crescendo musicale del ritornello.
In mezzo Who Killed Truth? non perde colpi, con un testo di chiara attualità poiché se la prende con fake news e confusione social. Acts of Love, con cui hanno anche aperto i concerti del loro ultimo tour 40 Years of Hits, è poi veramente canzone di altri tempi e contemporaneamente modernissima.
L’album basterebbe già così, ma Natural aggiunge al disco atmosfere malinconiche e cupe che i Simple Minds conoscono bene ma che qui non si erano ancora sentite, Planet Zero con il suo rock dinamico, col suo intro potente di batteria (Cherrise Ossei è una potenza assoluta e dal vivo ha un carisma scenico che rischia persino di sottrarre scena al vocalist e leader) e con l’intro di voce femminile emoziona chiunque conosca i Simple Minds dagli esordi, e vuole ricordare che non abbiamo altre alternative dopo questa vita in questa terra. E poi c’è il finale epico di The Walls Came Down (cover dei The Call), che con i suoi toni trionfali risplende per un cantato arrabbiato, acuto e grintoso di Kerr ancora in forma come quando era la più bella voce negli anni ’80 insieme con Bono e Sting.
Nella edizione deluxe, Direction of the Heart (con la sua intro tanto New Wave) e Wondertimes aggiungono preziosità a un disco già bellissimo. Certo, i Simple Minds con il loro 20simo disco in studio su ben 32 pubblicati, non inventano qui un genere, e nemmeno rinnovano o impreziosiscono il loro.
Questo non può essere una critica però visto che dimostrano di suonare ancora ad altissimi livelli dopo 45 anni e dopo svariate cadute, soprattutto se consideriamo che i loro dischi degli anni 2014-2022 suonano energici come quelli che li hanno resi noti ovunque, anche se forse non contengono il “genio” di certi riff di tastiera e chitarra e di certi cori che tutti conoscono. Ma una bella domanda è chiedersi se fossero usciti allora questi dischi, e canzoni come Don’t You o Glittering Prize oggi. Noteremmo la differenza?
Nel dubbio, non chiediamo, e godiamoci la loro bella musica fin che dura, visto che dura già da tantissimo.
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autore: Francesco Postiglione