Che è da tanto che i Soft Pack abbiano lasciato la natìa San Diego si sente, considerando che di quel punk-rock che ha fatto la grande la città qui non v’è ombra.
Che abbiano scelto poi Los Angeles come città adottiva può forse rientrare di più nelle loro coordinate ma non date per scontato come può suonare questo disco giudicandolo dalla copertina (frutto di un collage del cantante Matt Lamkin che si diverte a fare cose così con la sua fidanzata).
Dopo l’album omonimo del 2010 pubblicato da Kemado Records, Matt Lamkin (voce,chitarra), Matty McLoughlin (chitarra), Brian Hill (batteria) e David Lantzman (basso) decidono di prodursi il disco da soli, dimostrando di avere una visione peculiare dell’(indie)pop-rock molto meno scontata di quel che si possa immaginare, anche se di bands così dotate e poi sparite nel nulla, negli ultimi anni ne abbiam viste tante (gli Avi Buffalo, tanto per fare un esempio..).
Ad ogni modo la formazione dal buffo nome (provate a tradurlo e non sentitevi stupidini se vi viene da pensare proprio a quello che avete tradotto, poiché significa proprio quello!!) partecipa al Late Show di David Letterman ed i Nada Surf scelgono anche un loro brano per il disco di cover: insomma, non son proprio gli ultimi sfigati in terra di California.
Passando all’album, il primo brano, Saratoga forse è il peggiore per le troppe influenze alla Strokes che lo pervadono, cioè quel garage frenetico e solare che obbliga al divertimento forzato e non basta la sirena ad alto volume a toglierci questa impressione; sarà il singolone dell’album, probabilmente.
Vanno molto meglio le cose successivamente con Second Look e They Say in cui si sentono forti (e salvifiche in questo caso) passioni british pop – ma di quello serio in zona Smiths e primi Suede – rinfrescato però da un corroborante approccio ‘young americans’.
Tallboy – saranno anche quelle tastiere oltre al cantato un po’ ruffiano di Matt – è un nostalgico, malinconico, piacevole brano di pop radiofonico anni ’80, al contrario di Bobby Brown che insistendo su sonorità da retromaniaci è un noioso, barocco ed allusivo… brano di pop radiofonico anni ’80.
Si rialza il ritmo con Chinatown e Rays Mistake, tracce in cui il gruppo svela tutte le proprie carte in un colpo solo: neo garage-pop americano di fine secolo e brit-pop della prima ora: non male ma si può anzi si deve fare di più altrimenti si finisce come tanti altri (i validi Frankie & The Heartstring..tanto per fare un altro esempio?).
Meglio inserire allora quegli accenti di funk bianco e rumorista tipici della migliore new-wave che fu, Oxford Ave. lo dimostra, ma non bisogna eccedere perché subito dopo Everything I Know, con ancora in testa quei suoni, si lascia andare in languori che neanche il Morrissey più disinibito si sarebbe concesso.
Ed a proposito di Moz, quanto riderebbe sotto i baffi che non ha ascoltando Head On Ice, questa si davvero evocativa?
Le tracce di chiusura infine: Bound To Fall, dai suoni simil-analogici e rarefatti, presenta richiami alla scena neo-psych sempre eighties, quella algida e coeva della new-wave e da essa corrosa e divinamente macchiata (dai The Church agli House Of Love..) e Captain Ace dove i nostri si lasciano finalmente andare del tutto senza preoccuparsi di apparire troppo smithsiani, poco americani ed in fondo revivalisti, sfoderando un bell’assolo di sax su un tempo che – questo sì – fa diventare nostalgici e fa venir voglia di ballare anche noi.
autore: A.Giulio Magliulo